La lunga coda di paglia

La domenica sera non passa mai. La sera di domenica 9 aprile sprofondo nel divano del soggiorno, monitorando il mio destino nei titoli del telegiornale delle otto. Dalla cucina arriva rumore di piatti. Metà degli italiani ha già votato, annuncia lo speaker. Il destino si confonde nelle onde tremolanti dello schermo del televisore. Balugina un attimo di incertezza. “Certo, è un’affluenza, come dire… normale”. Mio padre ha appena smesso di complimentarsi per il suo bravo figlio che è riuscito a bucare il muro della comunicazione dandosi del coglione di fronte a uno stuolo di fotografi e telecamere. “Ai miei tempi si credevano tutti allenatori della nazionale, evidentemente ora vi credete tutti spin doctor”. Quando si dice l’evoluzione della specie.

È sera nella cittadina rivierasca dove torno per votare. Ai muri, Berlusconi ancora sorride, tra mille altre facce. Il copione della vita pubblica impazzisce attorno alla sua uscita di scena, mentre i nostri telefonini ancora si riempiono di facezie e di sghignazzi. Come quella sui “coglioni” che vinceranno perché sono il doppio delle “teste di cazzo”. Sui notiziari online adesso c’è lui che va a votare insieme a mammà, le suggerisce dove mettere la croce, un impiegato del seggio lo rimprovera, lui abbozza, “siete proprio l’Italia che non vuole bene”, “ma no, presidente”. Nella piazza fuori dalla scuola elementare i notabili sinistrosi cautamente si rallegrano. Mio padre intanto sbuffa. Ormai mi ha quasi scavalcato a sinistra, ma io tengo duro. Mia madre invece ci tiene a salvaguardare la sua reputazione centrista, il minore dei mali. Stamattina entrando nel seggio mi sono ricordato di sorridere cordialmente a tutti.

Seguo il consiglio del riformista pensieroso: bisogna voler essere tanti, democrat, liberal e sexy. Forse è per quello che mi stavano per dare una scheda in più del dovuto. Adesso, seduto sul divano, controllo gli istogrammi del televideo e le previsioni del tempo sul satellite, cerco inutilmente conforto nei numeri o nelle nuvole. Ieri sera una coglioneggiante cena in un appartamento bohemien è finita in un’astrusa discussione ovicola. Un uovo bollito pesa più di un uovo crudo? Il rimescolamento delle particelle influisce almeno un po’ sulla fisica degli elementi? Piccoli dubbi da relativista. “Quello che conta, adesso in Italia, è che bisogna ricominciare” mi dice un mio amico. Io e mio padre restiamo a bere un caffè tiepido, senza il coraggio di brindare al futuro, nonostante la svolta sia lì, a portata di mano.


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