Il mal di mare gaetano

Il mare ci costeggia e ci assedia da tutti i lati. Difatti alcuni che non se ne intendono di geografia ma che forse percepiscono la verità metafisica delle cose ancora credono di sapere che noi gaetani siamo abitanti di un’isola. E noialtri sempre lì a smentire e smussare, quasi per rivendicare la nostra incompiutezza, che Gaeta – come l’Italia tutta – è una penisola, una “paene insula”, una quasi isola. E quegli altri a chiederci del mare, com’è il mare a Gaeta?

Ma chi lo conosce, il mare. Fa capolino tra i vicoli ormai svuotati di pescatori, irrompe ai passeggeri dei treni reduci dalle curve montagnose, scintilla come una maiolica blu se ti affacci dalla vecchissima strada di collina tra Itri e Sperlonga, tra ulivi e tornanti dal sapore andaluso, scivola pigro se invece lo cogli dal lungomare, ancora punteggiato dalle macerie delle vecchie mura borboniche, pezzi di storia fatti saltare in aria sull’altare dello sviluppo economico. Ed è quello che inganna i turisti al primo impatto: giacché qualsiasi strada prendano, verso nord o verso sud, in salita o in discesa, sempre finiscono per trovarselo davanti. Tuttavia i gaetani di mare non sanno davvero se il loro mare conviene di più amarlo o sopportarlo. Come il “vecchio” di Hemingway in tanti pensano sempre alla loro città e al loro mare come a la mar: “a volte coloro che l’amano ne parlano male, ma sempre come se parlassero di una donna”. Il mare perduto a una visione di dominio, il mare dei ducati e delle Repubbliche Marinare per intenderci, evaporato sia agli splendori immaginari del turismo sia alle fatiche reali dei vecchi pescatori, nel nostro Golfo di Gaeta è stato degradato a via di fuga della classe dirigente, a banchetto degli interessi economici, a capro espiatorio di nuovi parassiti. E persino nell’agenda dei notiziari locali è diventato un appuntamento fisso: sempre in pericolo, sempre minacciato, sempre in ostaggio di qualche permalosa fazione. Vongolari e pescivendoli, turisti scostumati e nudisti sobri, palazzinari e portuali, meduse e petroliere, sindaci e avvocati, tutti a precipizio nelle acque marine. Ma con lo stesso spirito di anatre in uno stagno.

Quando scendiamo al livello di terra, infatti, quel vasto mare si mortifica di cemento, di traffico, di folla. Quel mare di Gaeta, quel mare anche un po’ mio, non lo riconosco più. Diceva un poeta strampalato: “se maggio è il mese della rosa, se settembre è il tempo di migrare, ad agosto fetecchioso finiamo tutti a mare”. Proprio quando noi, animali pietrificati di città, finiamo tutti a transumare sulle spiagge, a spintonarci sul bagnasciuga, a galleggiare nell’acqua che non ha una forma propria ma può prenderle tutte. Solo allora riscopriamo il mare. E capiamo quanto le città di mare desiderano la terra, comprano la terra, si snaturano e si sviliscono sulla terra, che è comunque ferma e sicura come la rendita, di fronte a quel mare agitato e mosso come il rischio di impresa. Mi volto a osservare le belle spiagge di Gaeta e le vedo tutte uguali: una lunga trafila di ombrelloni stipati, di pali piantati pure di notte, recinti di stabilimenti sempre più larghi, brandelli di spiaggia libera occupati senza ritegno da pseudo cooperative. “Amano il mare ma se lo fottono” mi dice un mio amico. Il mare come una puttana, presa da vecchi maschi avidi. Spiagge avare, stente, occupate più o meno legalmente, il bazar delle concessioni e dei noleggi alle fine non scontenta nessuno, tranne il povero bagnante che vorrebbe, com’è suo diritto, piantarsi un ombrellone sulla riva.

Più in là, verso sud, c’è il golfo degli allevamenti e della pesca, coi sindaci che battibeccano su chi lo ha inquinato di più, pure se il mare è sempre uno solo, l’acqua pur se salata rimane un fluido. Forse la superficie del mare è troppo vasta per gli occhi stretti di chi la amministra, gaetani ormai troppo sgraziati e avidi di territorio per riuscire a riprendere il largo. Eppure quante beate contraddizioni hanno visto passare le spiagge gaetane. Dalle battaglie alle sabbiature, dal mamma li turchi medievale al ciro! ciro! della modernità, dai sorbetti al limone del Sirio alle zuppe di pesce di Pauluccio Patatè. Il mare in fondo ci accomuna e ci disinfetta tutti, è il cagnesco degli uomini che invece ci divide ancora, che disprezza le diversità, che ci vorrebbe tutti uguali, plaudenti e paganti.

Nella più primordiale delle simbologie il mare è l’utero, è il grembo della madre, è l’origine del mondo, è l’umore dell’amplesso. Secondo la psicanalisi postfreudiana (Sàndor Ferenczi, riportato da Francesco Merlo su Repubblica) anche la pulsione sessuale “dopo la catastrofe del prosciugamento dei mari”, dopo l’emersione delle terre, è “un sostituto della vita acquatica perduta”, una “lotta per procurarsi l’umidità che sostituisce l’oceano”. Così pure nel mezzo dell’incarognimento vacanziero verrebbe voglia di spogliarsi, di tante cose. Aiutare gli occhi a cercare negli altri soprattutto lo sguardo, come una presenza più leggera. Disinfettarsi le proprie ferite nell’acqua salata. Come i cacciatori da dune e le prede nascoste di certe piccole rive ciottolose di ponente. Dove la costa si impenna e diventa roccia, trecento scalini da scendere solo per arrivarci. Corpi che si consegnano docili al sole e al mare, sguardi smaliziati, passeggere passioni. I costumati moralizzatori, gente che nessuna prima pietra potrebbe scagliare, ora così turbati da qualche chiappa all’aria aperta, seduti in braghe corte sui loro balconi, vorrebbero proibire e vietare, purtroppo sono bravi a imbiancare un paese che ormai è tutto un sepolcro. Il loro mal di mare è il malessere dell’impotente, la nausea del frustrato. Il nostro mal di mare è una visione stregata di un bel paese alla deriva. Per fortuna, appunto, ci resta il mare. Ci infilo dentro una mano e le gocce scorrono lungo le dita, e di nuovo giù, mischiate a tutte le altre. Mi bagno, dunque sono.


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