Le onde di San Francisco

Dal finestrino dell’aereo che in circa sei ore vola da costa a costa degli States osservo, appena le nuvole si spostano, campi coltivati, appezzamenti infiniti, montagne rocciose ricoperte di neve e ghiaccio, canyon stretti e profondissimi, implacabili deserti di polvere e sabbia, piccoli villaggi sparsi, colline ventilate dall’oceano. Sulla costa del Pacifico trovo clima mite, sole tiepido, qualche Babbo Natale in maniche corte. Le strade salgono e poi ridiscendono dalle colline, inseguite dai pali dell’elettricità coi loro fili penzolanti al vento. I tramonti sembrano riacquistare tutto il loro colore, e poi subito si buttano in una notte che in certi quartieri residenziali pare assumere quelle tinte da tipico romanzo noir della west coast.

A San Francisco nelle librerie dei quartieri italiano e cinese professori e lavoratori sindacalizzati degli strip-club cercano qualcosa da leggere sui mezzi pubblici. Nella parte più bassa della città è possibile avvistare qualche anziano poeta recitare i suoi versi per strada accanto a manifestanti di qualche setta cristiana che mettono in guardia dall’apocalisse prossima ventura o imprenditori semi-falliti della new economy a passeggio sui prati col loro cane. Se ci deve essere un punto in cui l’edonismo e l’idealismo, l’individualismo più sfrenato e un radicato spirito di comunità si fondono, allora questo punto deve essere a San Francisco, in mezzo ai resti di estati dell’amore, illusioni messe in rete, orgogli sessuali in cerca di legge. Se guardi bene, come diceva Hunter S. Thompson puoi quasi vedere il livello di piena, il punto in cui le onde si sono infrante, un attimo prima di ritirarsi, come è il destino di ogni onda.

Se c’è poi un’altra cosa che abbonda a San Francisco sono gli homeless, i dropouts, insomma quelli che da noi si chiamano, in modo poco politicamente corretto, barboni. Nella piazza tra Market and Fifth si riuniscono (senza saperlo, tutti persi dietro la loro solitudine) i senza casa, i disadattati, quelli che vanno a pietire un dollaro ai turisti che aspettano di salire sulla cable car in Powell Street, o che li insultano con la voce resa roca dall’umidità e dagli anni passati dentro ai portoni. Sono tanti e danno tutti l’impressione di camminare portandosi ancora addosso i calcinacci e le rovine di un’illusione di gioventù, di una stagione dove hanno creduto che tutto era possibile e che li ha portati infine su una strada buia, senza uscita.

All’improvviso all’orizzonte appare uno dei famosi cable car, i tram trainati da un filo metallico che scorre sotto l’asfalto, che sono il simbolo della città. Gli indigeni considerano come cosa loro, e in quanto tale gli sono particolarmente affezionati, i tram che il Comune di Milano gli ha donato molti anni fa. Sì, quelli degli anni Trenta, rumorosi, scomodi, sferraglianti, lenti. Girano sulla F Line, da Fisherman’s Wharf a Castro, e sono sempre pieni, sia di turisti che di locali, e bisogna dire che fanno la loro porca figura. Certo, avere il Bay Bridge alle spalle piuttosto che un murales di Dolce & Gabbana sulla circonvallazione è un dettaglio che aiuta.


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