Tornato a Boston scopro che la mia vecchia zia mi ha cacciato di casa. Dubito di averle fatto qualche cosa, anche perché nelle ultime settimane dimoravo a svariate miglia di distanza e l’ultima volta che c’eravamo salutati pareva ancora volermi bene. Praticamente atterro con l’aereo alle dieci di sera e corro a trovare il primo Holiday Inn sulla superstrada, come un qualsiasi marito fedifrago sull’orlo del divorzio. E’ un’ebrezza che non avevo mai provato, lo ammetto. E poi qui in America quando arrivi in un hotel per chiedere una stanza, anche in un’ora tarda, basta pagare e dare al massimo il proprio codice postale (“va bene quello di Roma?”, “fa niente, non si preoccupi”) e puoi entrare in stanza, non come in Italia dove fotocopiano documenti per la questura e ti squadrano con occhiate che ti fanno sospettare che sia per caso ancora in vigore il reato di adulterio.
Comunque mia cugina è mortificata, povera ragazza, non ha il coraggio di contraddire l’arcigna madre, tuttavia già che c’è mi chiede se non mi avanzi mica una stanza d’albergo pure per lei, “a me non mi caccia mai di casa, mannaggia”. E pensare che certi miei amici prima di partire mi avevano avvisato di stare attento a non fare la fine di quel Tanino del film di Virzì che arriva bello bello negli States e a un certo punto si trova prigioniero di tutto un parentado italoamericano che lo costringe a fidanzarsi con la figlia cicciona del sindaco, finché lui insomma non la butta a mare e scappa. Invece qui finisce che mi ritrovo in una sceneggiatura buona per i fratelli Coen, con l’indiavolata vecchina armata di rosari e crocifissi che mi insegue per tutto il territorio federale, cercando di far fuori il nipotastro incolpevole. Mia madre saggiamente mi ha detto: “E che ne potevo sapere io che questa qui nel frattempo era andata di matto?”. Ieri sono andato a riprendermi la valigia che le era rimasta in ostaggio. Mi ha detto: “Non ti ho cacciato, me lo ha ordinato il dottore di non averti per casa, ho la pressione alta”. Sembrava quasi di stare in un tinello degli anni Cinquanta con Tina Pica che fa credere a tutti di essere moribonda. Non sapevo se scusarmi o se arrabbiami. In fondo io generalmente non do fastidio, non faccio rumore, non russo, non sporco, non lascio mai aperto il water, al massimo ogni tanto esco la sera, quindi stavolta proprio non riesco a darmi colpe. Le avevo perfino dato la soddisfazione, alla cara zia, di assaggiare un’intera ciotola di pasta fredda in salsa Alfredo che mi aveva preparato con tanto amore (ho pensato: adesso arriverà anche la pizza, anzi magari proprio la tiella gaetana, all’ananas; non è arrivata per fortuna). E anche se certi giorni sembrava arcigna come la mamma di Tony Soprano nel telefilm, altre sere si sedeva affianco e mi regalava ricordi bellissimi della sua vita dura, lontana da casa.
Alla fine l’unica cosa di cui veramente mi dispiaccio, oltre a non aver potuto salutare la gatta obesa in salotto, forse l’unica che davvero mi capiva, è non poter vedere più le puntate di “Desperate Housewives” la sera in salotto con mia cugina. Alla quinta stagione incombe la disperazione, sotto forma di tempo che fugge. “Perché il tempo vola?”, si chiede Susan. “Perché i bambini che un tempo cullavo crescono così velocemente?”, si chiede Lynette. “Perché la vita che sognavo si è trasformata in un lavoro che non mi sarei mai aspettato?”, si chiede Bree, la mia adorata Bree che adesso gestisce un catering. “E perché quella donna che guardavo ogni giorno allo specchio è diventata qualcuno che neanche riesco a riconoscere?”, si chiede con sconforto la sempre più casalinga Gabrielle, due figlie obese a carico, più il marito Carlos. Il tempo passa perfino a Wisteria Lane, e la vita è breve. Però anche nella vita reale fa sempre piacere congratularsi con se stessi per la propria capacità di ovviare alle difficoltà.