Il Re del Pop

E’ mezzanotte, fa caldo ma nemmeno tanto, a Villa Ada è pieno di zanzare, noi scivoliamo lungo il lago, abbiamo appena finito di vedere questo concerto dei Nouvelle Vague, due mirabolanti fighe francesi, una cosa musicalmente raffinatissima per carità, punk e progressive rifatto in bossanova, e comunque era già stata una giornata durissima, scoprire sul sito dell’Espresso il video con Simon Le Bon ospite del triste party di Berlusconi a Villa Certosa, insieme alla Ventura che balla il Gioca Jouer, era parso un segnale incontrovertibile della fine degli anni Ottanta, davvero la conclusione di un’epoca, peggio del Muro di Berlino che ormai è roba buona per temi della maturità, e adesso ecco che si illumina il display del telefonino, e da qualche parte in forma di messaggini arriva la notizia che ci vira definitivamente l’umore verso il basso, è morto Michael Jackson, un infarto in casa pare. E allora non si può più far finta di niente. Perchè Jacko, è vero, era morto già da dieci anni come minimo. Però uno come lui non può morire lo stesso. Non ci si può credere, perlomeno. Ma sicuramente non è morto. Lo avranno rapito gli alieni. Sarà andato a raggiungere il suocero Elvis su un’isola segretissima nel Pacifico. Si sarà fatto ibernare. Ma come gli anni 80, non può morire. Come Berlusconi, non può morire. A proposito: chissà se prima o poi spunterà fuori pure un video di Jackson ospite a Villa Certosa, ormai non ci meravigliamo più di niente, stanno facendo strame dei miti delle nostre adolescenze, io sono tre mattine che ogni volta che entro nell’edicola sotto casa mi prende un infarto, abbasso gli occhi per pagare e vedo Bruno Vespa in piscina che rifà Nevermind dei Nirvana sulla copertina di Tv Sorrisi e Canzoni, quando è troppo è troppo.

Comunque, tornando a Michael Jackson: le similitudini tra la sua morte e quella di Elvis Presley non sono affatto poche. Il re del pop e quello del rock’n’roll, morti nello stesso mo­do. La telefonata al pronto intervento dei sudditi terrorizzati, la corsa dei pa­ramedici nella villa del cantante più famoso del mondo, i tentativi di riani­mazione, lunghissimi, inutili. Il nero che voleva sembrare a tutti i costi bianco e il bianco che trasformò in fenomeno globale la musica dei ne­ri. Stroncati dai loro eccessi, dalla ric­chezza immensa e depredata da am­ministratori senza scrupoli, schiaccia­ti dal peso insostenibile delle loro os­sessioni, dei loro vizi, del loro talen­to. Le ville mausoleo dove nascondersi. Gli hamburger con pancetta fritta da divorare o i quintali di psicofarmaci da inghiottire. L’irriconoscibilità somatica dei volti, già da tempo volati nel cielo crudele delle icone. Appena qualche mese fa della faccia di Michael Jackson – bianchissima, lattiginosa, coi capelli finti, una boccuccia che sembra un taglio nella carne, cavia e nemesi di se stesso – si era detto che al buio si illuminava, come certi pupazzetti fluorescenti che uscivano dalle merendine. Chissà perché i grandi miti pop, quelli sublimi ma anche irrimediabilmente tragici, muoiono sempre d’estate. Con dipartite fatali che forse non sono suicidi ma potrebberlo esserlo.

Elvis Presley. Marilyn Monroe. Ora Michael Jackson. Pronti per diventare materia antologica da servizi commemorativi nei vuoti telegiornali d’estate, a ogni anniversario. Nelle caldi estati dello star system, quando colano via i trucchi e le illusioni. Lo chiamavano “il re del pop”, e in fondo è morto proprio da re. Perché evidentemente è così che va con le vite dei re, e noi ne sappiamo qualcosa. Nessuno è abbastanza amico dei re da prenderli di petto e dirgli: vecchio mio, stai sbiellando. E troppi sudditi gli dicono: “Puoi fare quello che vuoi! Compreremo comunque i tuoi dischi, ti voteremo per sempre e sempre!”. Ma lui era il re. E comunque è andata così. Compare la scritta “game over” sul videogame umano in cui tutte le culture di genere hanno provato a mescolarsi, nero e bianco, maschio e femmina, bambino e adulto, vincente e sconfitto, gay e tamarro, umano e vampiro, zombie e disneyano, revenant e Bambi, a caccia del miglior offerente. Il mio amico Mario mi da una pacca sulla spalla e sentenzia: “E’ la fine del pop e l’inizio dell’antiavanguardia popolare”.


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