Spiaggia libera tutti

Vorrei che ci fosse un libro della collana “Contromano” di Laterza per ogni angolo d’Italia, come una specie di allenamento malinconico dell’anima. Si tratta di una specie di manualetti dove gli scrittori concentrano il loro sguardo sui luoghi che gli appartengono, sui posti dove vivono o camminano o dove sono cresciuti, sulle piccole storie e manie che si portano dietro. Hanno copertina con disegni colorati e giocosi questi libretti, dal tratto spigliato come di un disegno a pennarello fatto sul tavolo di casa, guardando fuori dalla finestra. Sono corso a comprarmi, nel tendone bianco che d’estate vende libri nel viale alberato, sul lungomare, quello di Chiara Valerio, “Spiaggia libera tutti”. Perchè parla di posti qui vicino, che sono suoi ma sono anche miei, perchè in un impeto di sincerità sarei capace di confessare che è anche il libro che vorrei scrivere io prima o poi, dal mio punto di vista.

Quello di Chiara infatti è un reportage sentimentale su Scauri e dintorni, passando per Terracina, Sperlonga, Gaeta, Formia, Minturno. Con un angelo custode, la scrittrice Fabrizia Ramondino, morta in quel mare un paio d’anni fa. A noi di Gaeta, Scauri, che sta sul mare ma è frazione della montuosa Minturno nonostante ne abbia il doppio degli abitanti vivi, ingiustizia metafisicamente compensata dal fatto che Minturno detenga il cimitero, Scauri che è l’estrema propaggine meridionale della provincia di Latina e del Lazio, ma che nei fatti è già sud, a noi altezzosi gaetani insomma Scauri è sempre sembrata una cosa da snobbare, una periferia marittima, uno scarto turistico per noi che già amiamo parlar male dei turisti perlopiù campani che qui ci danno a campare, a parte per un paio di buone birrerie. Detto così, senza acrimonia, senza l’astio secolare che divide Gaeta da Formia, città territorialmente contigue ma spiritualmente congiunte quanto potevano esserlo Caino e Abele. D’altronde anche noialtri fummo etichettati come “marocchini” dai veneti che vennero a popolare le paludi bonificate dal fascio littorio poco più a nord, come epicamente racconta Antonio Pennacchi nel suo meritatamente premiato romanzo “Canale Mussolini”. Bisogna pur sempre rifarsi, e trovare uno più negro di sè con cui prendersela. Comunque non ne faccio una questione di campanilismo, ho anche tanti amici formiani (Lei è razzista? No, ho molti amici neri), ne faccio una questione di percezione.

Chiara per esempio dice che Scauri è veramente un bel posto, “Scauri è un po’ come Macondo, solo che a Scauri c’è il mare”. E sicuramente ha ragione lei. Perchè ognuno ha ragione del posto in cui è nato, e ha il diritto di amarlo e di odiarlo come nessun’altro, e perfino di renderlo un luogo obbligato della propria nostalgia. Scrive Chiara che Scauri “è una specie di non-luogo, perché tutti pensano che sia già in Campania. Gaeta era quasi Repubblica Marinara, Formia ha avuto il primo grattacielo del litorale. Baia Domizia ha il camping delle svedesi e Spelonga è la Costa Smeralda del Lazio”. Scauri invece ha un lungomare infinito, un mare di cui gli indigeni sembrano non accoggersi, gli zingari, gli ossessionati, i fidati e gli sballati di ogni posto di provincia, una pineta oscura dove uno è morto attaccato a un albero. “Un pezzo di costa quasi intimo che si è trasformato in una scomposta Las Vegas borghese con le palme intermittenti di plastica”. E con queste immagini l’autrice è brava a disegnare la provincia pontina come un goffo scenario da spaghetti western, tra rovine romane, vecchi luna park e negozi a forma di bomboniera, “luogo di sperimentazioni e di strafalcioni, linguistici e architettonici, di approsimazioni e molti condoni”, ogni tanto anche struggente.

Della mia Gaeta Chiara racconta molte cose, e anche bene. Noi paesani a certe cose ci si tiene e quindi viene da notare qualche imprecisione qua e là, ma in fondo il libro parla di Scauri e poi sa farsi perdonare di tutto quando racconta che “i gaetani si aggirano sempre con l’aria dei lupi di mare”, e questo inorgoglisce un po’ anche me, che so a malapena nuotare e comunque conosco i miei compaesani, li so sviliti e avidi di terra e di “quartini” come tutti gli abitanti delle città di mare. Ritrovo in questo prezioso e denso vademecum odori e colori familiari. Ritrovo anche l’immagine di Francuccio, che io lasciai l’ultima volta in un “repertorio di pazzi” che scrissi un annetto fa, ed è proprio lui. Una notte fredda di marzo, al bar Triestina in pieno centro di Gaeta, quest’uomo in mutande e infradito che ricorda un po’ Maciste, “il barista gli offre una sigaretta, lui si rammarica, con ampi cenni nella nostra direzione, di quanto sia scaduto il bar Triestina, che anni fa a quell’ora era venuto a fumare una sigaretta e aveva incontrato Carlo d’Inghilterra e Lady D. attraccati con un canotto per prendere un caffè”. Francuccio, mentre Chiara che forse ancora non immaginava di scrivere questo libro e i suoi amici origliavano trattenendo risate, racconta che Lady D. era veramente bellissima, senza gioielli, con i pantaloni ai polpacci e una maglia a righe, coi capelli sempre in piega e quella luce che irradia dalla giovinezza, lei aveva preso un caffè macchiato al vetro e suo marito il principe d’Inghilterra un bignè alla crema, e quelli che facevano le tielle a via Indipendenza si erano risentiti perché la specialità gaetana non è il caffè in vetro, ma la tiella. Francuccio si lamentava di avere perso l’occasione di starle più vicino. Il barista gli batteva una mano sulla spalle e gli dava ragione, dicendo che quei tempi non torneranno mai più. Io finisco di leggere quella pagina di libro e penso che dentro ci sia il fondo autentico del mio paesone di mare, come se la città fosse una modella che vuole vedere come gli altri la ritraggono.

Anche se la nostalgia è un miele che talvolta sa di fiele, e lo sapeva Baudelaire quando pensava alla sua Parigi e scriveva “d’una città la forma si rinnova / più rapida, ahimé, del cuore di un mortale”. E noi in coro avremmo potuto suggerire pure a lui: trasferisciti a Tremensuoli, giacchè persino gli scauresi la chiamano, non si sa perché, minuscola frazione, “la piccola Parigi”. Si tratta di gioie piccole, mezze salvezze, libri da scrivere. La sostanza di un uomo che sta nei progetti e nel futuro ma sta innanzitutto nel luogo dove si trova, odori e profumi, terra e acqua, una sostanza che impieghiamo tutta la vita ad addomesticare.


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