Un quarto d’ora di fila

Riedizione democratica del famoso enunciato warholiano: “Ognuno ha diritto al suo quarto d’ora di fila”. Per votare alle primarie, in coda nella palestra dalla scuola elementare, sotto il canestro. Anziani che gli tremano le mani e diciottenni per la prima volta con una scheda in mano, voci che rimbombano, la scheda da poggiare su un banchetto di scuola, le firme e le carte di intenti che non finiscono mai, per evitare sorprese e soprattutto brogli che, si sa, sono la norma, ma anchea dimostrare che in troppe buone intenzioni si può anche annegare. Capannelli correntizi che si scambiano smorfie oblique ma appoggiano lo stesso candidato. Giovanili di partito fedeli alla linea e vecchi sindacalisti dall’aria rottamatrice. Funzionari a cui daresti il voto ma che conosci troppo bene per credergli ancora. Qualcuno passa e sfotte, domani sarà a inveire su qualche social network contro gli stipendi dei parlamentari. “E’ un’adunata giudiziosa” leggo sul Twitter di Paolo Ferrandi. Ci si confronta aspettando il proprio turno. Il candidato ideale sarebbe una donna come Puppato. Pragmatica come Bersani. Capace di scaldare i cuori della base come Vendola. Di parlare il linguaggio della modernità come Renzi. Senza spaventare i tanti elettori che non l’hanno votata come Tabacci. Tocca accontentarsi. E scegliere.

In coda pensiamo che queste primarie ancora non sappiamo bene come misurarle, un po’ vaghe e sregolate, con qualche firma a fare da argine, senza bene sapere come evitare che i capobastoni si comprino i voti dove meglio credono, i sabotatori sabotino, gli infiltrati infiltrino, le civette civettino. Senza un sistema elettorale e istituzionale che assicuri la governabilità in mano a un leader scelto dal corpo elettorale, ancora persi a inseguire premi di maggioranza e porcellini zoppicanti. Pure di questo Partito Democratico molti elettori si vorrebbero fidare anche se ancora non sanno quale strada vuole imboccare, e stanno adesso a sperare che sia proprio il rito purificatore delle primarie a forgiare il suo profilo identitario. Eppure un’identità, se c’è, esiste prima e resiste anche dopo. Le primarie servono solo a selezionare il leader più capace a incarnarla.  A trasformarla in programma. Ad offrirla, condivisa e risolta, ai cittadini-elettori. Pure in coda c’è sempre qualcuno che ridice la banale ma finora incontrastata battuta, cioè che il Pd è bravo a vincere le elezioni solo quando si tratta delle sue primarie. Si può ancora cambiare il Paese usando bene la politica e non facendone a meno? Si può ancora non firmare la delega in bianco ai professionisti dello sfascio, del “tutti a casa”? Forse questo partito ancora incompiuto si chiama Democratico nell’accezione della democrazia come la definiva il vecchio Churchill in tempi non sospetti: è il peggiore dei sistemi in circolazione, ad eccezione di tutti gli altri.


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