Istituto ombre

Il cielo sopra la città ha gli stessi toni di grigio di un filmato dell’Istituto Luce. Una voce stentorea dentro di me proclama e declama, annuncia e denuncia, batte e ribatte. Attraverso i finestrini scrostati di un tram, le persone e le cose sembrano tutte in posa, e le osservo come una zarina in visita dentro un villaggio fatto solo di facciate di cartapesta. I vecchi nonni che avevano fatto la guerra, di fronte a noi nipoti la sparavamo troppo grossa, scuotevano il capo e commentavano: “eh, voi troppi ve ne fate di film Luce!”.

Ho passato intere stagioni a dire che il romanzo è morto, e nemmeno il cinema si sente tanto bene, ma il fatto è che ho bisogno come tutti che qualcuno mi romanzi la realtà, che dica le cose come voglio sentirmele dire, in maniera abbastanza epica e sofferta e coinvolgente e brillante, non importa che sia una fesseria ma l’importante è che sia detta bene. Ragioniamo tutti quanti con due teste separate, come leggo in un articolo di neuroscienze. Due teste che la pensano in modo diverso, riflettono in modo diverso, desiderano cose diverse. Una specie di bicameralismo perfetto, rigorosamente interiore, con indecisioni prolungate come navette di disegni di legge. Due popoli e due stati e un’anima sola sulla quale lanciare razzi e scavare tunnel come mediorientali accecati. Solo che, in condizioni normali, a un certo punto ci si mette d’accordo tra loro, si dialoga, si fa pace con se stessi innanzitutto, come due persone che litigano e a un certo punto si dicono: ok, parliamone. Mettere insieme i pezzetti è qualcosa che facciamo tutti quanti. C’è sempre una sfasatura fra come crediamo di essere e come sembriamo agli altri, vale per le cose, per i paesi, per le persone. Ed è proprio quando ci mettiamo in posa che sveliamo agli altri più verità che in un’espressione rubata all’improvviso.


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