C’era una volta un paesone di mare dove il Natale sembrava non arrivare mai, dove le strade erano vuote di addobbi e di allegria, mentre gli abitanti camminavano tristi e malinconici sul corso nelle sere di dicembre, ripensando con nostalgia alle lunghe giornate d’estate dove il sole sembrava non voler tramontare mai e guardando con invidia ogni paese dei dintorni con le sue luci e i suoi festoni, e tutto – anche Maranola e Tremenzuoli – ai loro occhi sembrava Manhattan.
Un Natale passato qualcuno di buona volontà ci provò pure a sfidare questo incantesimo fatto di tenebre e malinconia. Una volta decisero di piazzare delle renne che di notte diventavano luminose nelle aiuole in mezzo al lungomare, sotto le palme già rosicchiate dal punteruolo rosso, ma dopo qualche giorno alcune non si trovarono più. Qualcuno banalmente pensò a un furto (esistono anche ladri di renne luminose?) ma molti sapevano, e c’è chi addirittura diceva di avere visto, qualche renna allontanarsi nell’ombra della sera, scappando verso paesi limitrofi, o forse addirittura lanciarsi senza speranza nel mare nero della notte. Un’altra volta si fece un presepe tutto di lampadine, pure col Gesù luminoso, e grande fu il turbamento nello scoprire che pure il Bambinello fluorescente, se n’era volato via, forse sulle sue stesse gambine, in fondo nessun ladro ruberebbe Gesù. Ci fu poi quella volta che un povero abete piazzato nel mezzo di una scalcagnata fontana che non schizzava quasi più acqua, più triste di quello di Virginia Raggi a Roma, fu abbattuto dal vento, finendo sopra la macchine ferme al semaforo. E ogni volta che qualcuno provava a mettere delle luminarie tutto finiva come in un viale del tramonto che non ha pagato la bolletta, e tutte le luci – quelle a forma di pacco e quelle a forma di fiocco, quelle a forma di alberello e quelle a forma di palla – parevano lacrime che piovevano sulle teste dei poveri passanti, smosse dal vento, e sembrava di sentirle cigolare, coi loro fili elettrici e le loro lampadine, come finestre di una casa abbandonata, popolata solo di spettri.
Il paesone di mare si rianimava solo tra il pomeriggio e la sera del 31 dicembre, quando si affollava di bande di uomini e donne di tutte le età, armate di trombe e tamburi e altri strani strumenti musicali, che cantavano a squarciagola stornelli di saluto all’anno vecchio e di benvenuto all’anno che arriva, circondate dalla popolazione tutta percorsa da un fremito elettrico, che solo a saperlo tramutare in energia ci si sarebbe potuta illuminare tutta la provincia, altroché. Ma in fondo quello strano rituale altro non era che una specie di danza magica per scacciare via le malinconia del Natale e il buio di quelle feste senza luminarie, lo sapevano tutti. Nessuno aveva mai capito da cosa nascesse questa maledizione natalizia, c’è chi dava la colpa a Garibaldi chi ai vecchi sindaci, chi se la prendeva con gli americani e chi coi comunisti, chi accusava la dominazione spagnola dell’ottocento e chi i francesi nel seicento, chi con Pio IX e chi con l’ipata Docibile, chi diceva che la colpa era solo nostra, eravamo fatti così e c’era poco da lamentarsi. Ai bambini si diceva di fare i bravi, che con noi Babbo Natale si era già arrabbiato una volta e faceva solo un’eccezione a passare da lì nottetempo.
Nulla comunque sembrava in grado di spezzare questo incantesimo, finché un giorno un uomo con la faccia sempre sorridente di chi potrebbe credere indifferentemente a Babbo Natale o al diavolo in persona, decise di candidarsi a sindaco con un solo obiettivo: riportare il Natale in città. Lui questo naturalmente non lo disse a nessuno. Né al suo partito né ai suoi elettori, che altrimenti non gli avrebbero creduto, o lo avrebbero preso per pazzo. Nei comizi e nelle interviste promise le stesse cose che tutti promettevano da decenni: il lavoro e la riapertura delle fabbriche, il turismo d’estate e pure d’inverno e i parcheggi sotterranei, le piste ciclabili e le aliquote Imu. Ma dal primo giorno in cui indossò la fascia tricolore il suo pensiero fu solo quello: il Natale, come un bambino, lui voleva solo il Natale. Aumentò le tasse ogni anno sempre di più, metteva da parte delle poste di bilancio che nessuno sapeva dove andassero davvero a finire, cominciò a progettare delle strane opere pubbliche vagheggiando di fontane nuove, che addirittura si illuminassero a ritmo di musica, nel nuovo piano regolatore insistette per far inserire uno strano comma che obbligava le case ad avere uno spazio esterno per eventuali luci e addobbi, poi inviò mazzi di rose rosse alle dirigenti comunali, invitò a cena mezzo Pd, fece fuori dalla maggioranza i consiglieri che cominciavano a notare qualcosa di strano e che se ne uscivano dal suo ufficio dicendo “non è più lo stesso, è come se avesse qualcosa in mente ma non riesco a capire cosa, pensa sempre ad altro”. Nel frattempo gli anni passavano, le nuove elezioni si avvicinavano, le grandi promesse fatte agli elettori languivano, e lui sentiva che il suo momento stava arrivando. Ora o mai più. Un giorno gli giunse sulla scrivania un catalogo che sembrava il libro mastro del paese dei balocchi, e lui che si sentiva un po’ Mangiafuoco, un po’ Geppetto, un po’ gatto e un po’ volpe, e anche abbastanza Pinocchio, diventò felice come un bambino nel reparto giocattoli e disse: voglio tutto!
E così, dalla sera alla mattina di un autunno che sembrava come gli altri, la città si risvegliò tutta nuova. Arrivarono fontane che si illuminavano a ritmo di musica, cascate di cioccolato, alberi di Natale alti venti metri, piste di pattinaggio, saltimbanchi e cantastorie, bande musicali e majorettes, tenori che cantavano Vincerò, ballerini acrobatici, parcheggi diventati all’improvviso tutti gratis, negozi che riaprivano, trenini carichi di milf, fuochi d’artificio che piovevano sulla testa, luci che ci si poteva passare dentro e attorno e forse pure sopra. Gli abitanti del paesone di mare restarono a bocca aperta. Arrivarono da tutti i quartieri del paesone di mare, e poi arrivarono dai paesi e dalle province limitrofe, e a un certo punto le signore nei vicoli si dicevano tra di loro “è arrivat ‘nu pullmànn da Perugia o forse dal Perù, n’aggiu capito”. I candidati dell’opposizione restarono pietrificati come dopo un incantesimo della maga Circe, e si trasformarono in pinguini fatti di lampadine led, immobili e tristi, sulla banchina del porto. Il povero San Francesco, piazzato con la sua statua nel mezzo della fontana sberluccicante e milionaria, non sapeva più cosa pensare.
L’incantesimo in realtà non era del tutto riuscito: sugli abitanti del paese funzionava benissimo, a loro sembrava di stare un po’ sotto l’albero della vita di Expo di Milano al centro di Sanremo, dato che al sindaco piacevano le canzoni del Volo e le metteva a tutto volume in mezzo alla fontana, ma pure sembrava una festa patronale pugliese o una fiera campionaria del Midwest. Ma chi veniva da fuori, carico di aspettative e pubblicità, se ne tornava sempre un po’ deluso, dicendo “tutto qua? e che si credono di stare a Salerno?”. Solo per i puri di cuore che non si fanno troppo domande si spalancheranno le porte del paese dei balocchi, disse un parroco. Il sindaco con un sorriso ormai larghissimo aveva dichiarato in piazza che qualche mascalzone aveva tentato di portarsi via il Natale con qualche esposto alla Finanza o in Procura, ma lui lo aveva sconfitto, e l’anno prossimo se solo gli avessero dato ancora fiducia, altro che lavoro altro che riforme, con lui sarebbe stato tre volte Natale e festa tutto il giorno, anche i muti potranno parlare mentre i sordi già lo fanno. Lui in fondo aveva avuto ragione, perché governare e farsi bello spendendo a iosa i soldi degli altri ha dell’ineffabile, goduria pura. Solo un rimpianto aveva in fondo al cuore: “Non sono riuscito a portare la ruota panoramica!”. E così nel buio paesone di mare si accesero le luci del Natale, e pure i solitamente diffidenti paesani in realtà si scoprì che non vedevano l’ora di farsi un selfie col telefonino davanti alla fontana tutta illuminata, con le ballerine sullo sfondo. Tutti erano felici e contenti, le persone sembravano luminose e intermittenti come le lucine attorno agli alberi. Eppure c’era sempre qualcuno che, come Charles Bukowsky, avrebbe voluto indietro “un dicembre a luci spente ma con le persone accese”.