La prima volta che abbiamo visto la sopraelevata che passava giusto in mezzo alle case, le circondava, le sfiorava, mio padre guidava e diceva: «Ma com’è? Tu passi in macchina e vedi quelli che stanno mangiando». Io, come tutti, quel pezzo di tangenziale romana l’avevo visto solo nel film “Il secondo tragico Fantozzi”, quando Paolo Villaggio si lancia dal balcone di una di quei condomini affacciati sulla strada, alle spalle di un Pigneto non ancora rivalutato e gentrificato, per prendere l’autobus pienissimo al volo e arrivare puntuale alla timbratura del cartellino. «Non lo fare Ugo», «Non l’ho mai fatto ma l’ho sempre sognato». Ed ecco, in quel salto spiccato dal ragioniere e in quella folle corsa tra l’asfalto e lo scassatissimo autobus dell’Atac rimasto più o meno uguale ai giorni nostri, c’era sicuramente più epica della vita popolare del quartiere Prenestino che in tutto il neorealismo di Anna Magnani e in tutti i ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini, ma l’avrei scoperto solo dopo, nessuno cocktail bar nel 2017 esibisce ancora l’effige di Fantozzi, solo una petizione circolata su internet il giorno della sua morte propone di intitolargli quel pezzo di tangenziale.
Ci sono passato centinaia di volte su quella sopraelevata, e ogni volta, prima dello svincolo per la Prenestina, effettivamente, guardavo nelle case delle persone. Per un momento, mi intromettevo nelle loro vite, quasi sedevo alle loro tavole. E rivedevo quella scena del film, e risentivo la sorpresa di mio padre quando diceva: si vedono le persone mentre mangiano. Ho anche pensato di essere solo io a vederla così, invidiando la proverbiale indifferenza degli abitanti della capitale, mentre io invece che ho tare provinciali, piccolo borghesi, sicuramente un po’ pettegole, e quindi mi innamoro di ogni finestra aperta, osservo le cucine, i saloni, le stanze quando si intravedono passando davanti alle case, mi immedesimo per un attimo in vite che non vivrò mai e forse non vorrei, afferro al volo voci, arredamenti, cene, lampadari, scampoli di vite che non sono la mia, le afferro buttandomi al volo come l’ultimo autobus delle otto e zeouno.
Vivendo a Roma ho imparato a conoscere lo sguardo di riprovazione che accompagna i romani quando parlano di quelle case davanti la sopraelevata, incubo di ogni agente immobiliare. L’architetto Renato Nicolini, assessore alla cultura nelle prime gloriose estati romane, più di trent’anni fa, ragionando a proposito della sopraelevata immaginava la demolizione degli edifici che le fanno ombra, di modo che quel camminamento aereo verniciato di minio potesse finalmente mostrarsi in tutta la sua necessità, come un monumento alle contraddizioni della modernità, l’unica risposta romana alle architetture utopiche, forse perfino alla Torre Eiffel, l’unica speranza di paradiso di fronte ai vicini alberi pizzuti del cimitero del Verano, coi suoi palazzoni che pure sembrano condomini, popolati però solo di morti. Nessuno demolirà mai le case, nessuno soprattutto demolirà mai la sopraelevata, nonostante appelli e petizioni e proteste dei residenti, nemmeno ne faranno mai un giardino pensile come a New York, da queste parti gli sfregi non sono fatti per essere sanati.
La città – ho letto da qualche parte – “è un’enorme produzione di sguardi non richiesti”. Sguardi tremolanti, come candele che possono spegnersi da un momento all’altro. Ci sono sguardi che incroci e pensi che valeva la pena avvicinarsi di più, entrarci dentro, come cantava quel vecchio francese «dedico questa canzone ad ogni donna, a quella conosciuta appena, non c’era tempo ma valeva la pena di perderci un secolo in più». Ci sono sguardi che fermi, a cui prometti sogni e progetti, mentre attorno a te la luce cambia, il traffico svanisce, e sembra di andar veloce finalmente. E invece, capita, che quello sguardo ti sfugga, proprio come adesso, sulla tangenziale, mi sfuggono gli interni di queste case, la gente seduta a tavola. Le finestre aperte agli sguardi a volte sono oscene, perché sono scene non richieste, invasioni di campo: come i palazzi crollati, violentati da un’esplosione o denudati da un terremoto, con salotti e cucine e bagni e camere da letto esposte alla vista di chiunque, i quadri alle pareti, i vestiti negli armadi, vorresti coprirli tutti con un pietoso enorme lenzuolo, come i morti, come chi trema e soffre. A Londra pochi giorni fa ho visto invece gli appartamenti dalle pareti di vetro, nei grattacieli di lusso davanti alla Tate Modern di Londra. Dal decimo piano del nuovo edificio del museo i turisti hanno smesso di guardare il panorama e i loro sguardi vanno tutti lì: verso quelle case di gente ricchissima, salotti elegantissimi con vista allestiti come sale di musei di arte contemporanea, o forse sarà il contrario ormai. Come in una pila di vetro sotto formaldeide tutti ci ritroviamo ad osservare le sedie e divani di design, le lampade Castiglioni, le statue e i quadri, la frutta ornamentale nei vassoi d’argento. Una ragazza che legge seduta come in un acquario. I proprietari hanno protestato contro la Tate Modern e minacciano di fare causa, sulla terrazza alcuni cartelli invitano inascoltati a «rispettare la privacy dei nostri vicini». La Tate Modern non è la tangenziale est e c’è chi lì la casa se l’è comprata apposta. «C’è una contraddizione intrinseca nelle persone che acquistano appartamenti con grandi finestre nel centro di Londra, da cui possono guardare ovunque, ma non vogliono che le persone guardino dentro», commentava il Guardian. La cosa bella è che quegli appartamenti nei grattacieli di Londra sono quasi tutti di vetro, come un acquario, ma non sembrano avere finestre, non puoi affacciarti, non puoi far entrare l’aria, non puoi sentire i rumori, le voci.
Torno a casa e rivedo la tangenziale, con la luna tra le due corsie. Sono egoista ma devo ammettere che in certe notti d’estate passare là sopra su uno scooter è bellissimo. Lo so che non si dice, che c’è chi maledice ogni ora il rombo delle automobili che gli sfiorano il davanzale, chi è costretto a respirare in camera da letto i gas di scarico, però salire lassù quando la notte è stellata e il traffico è quasi svanito è un’esperienza magnifica. La città dorme, io mi sento allegro per una birra bevuta in più con un amico, l’aria accarezza il viso, i pensieri diventano leggeri, per un attimo mi sembra di volare prima di planare di nuovo a terra, nelle strade strette, nella sveglia e caffè e autobus del giorno dopo.