Forse nella bassa padana non usa, ma volevo dire che la “smarginatura”, come la chiama Elena Ferrante nei suoi romanzi, stanotte l’ho provata anche io. Solo che a Lila, l’amica geniale, è successo su una terrazza di Napoli circondata da razzi e tric trac del Capodanno 1958, “in mezzo ad esplosioni violentissime, nel gelo, tra fiumi che bruciavano le narici e l’odore violento dello zolfo”, a me invece dentro un‘osteria bellissima in provincia di Cremona, dove però a mezzanotte non festeggiava nessuno o tutti lo facevano con grandissima discrezione. È vero che come scriveva Proust “la discrezione è il privilegio di poter assistere alla propria assenza”. Eppure nessuno dei presenti allo scoccare del nuovo anno ha ha sentito il bisogno di tirare fuori una bottiglia, di contare quei dieci o cinque secondi alla rovescia, di brindare o scambiarsi gli auguri.
Sono andato, con passo circospetto, pure nell’altra sala, pensando che magari fosse lì la baldoria che ci stavamo perdendo, e invece anche lì erano tutti fermi ai loro posti, e contro ogni mia aspettativa non succedeva nulla. Ho ricontrollato l’orologio: mezzanotte e venti secondi. Poi, dopo qualche minuto, sulla piazza avvolta nella nebbia è arrivata una banda di ragazzini urlanti con micce e petardi, dentro una nuvola di euforia e polvere pirica, e li ho guardati con sollievo, pensando che in quel momento anche tra loro c’era qualcuno che stava lì senza esserci, spaesato e fuori luogo, sentendo ogni margine tra se stesso e gli altri cedere, compreso il margine illusorio che per convenzione mettiamo tra un anno e l’altro.