Forse i politici sono presentatori, comici, showgirl e showmen che non ce l’hanno fatta. Lo aveva notato già ineffabilmente Gore Vidal: “politics is show business for ugly people”, d’altronde lui potè frequentare sia la Casa Bianca che Hollywood, livelli altissimi. Nelle gigantografie tre metri per due degli anni 80, affisse da Francesco Vezzoli in un sotterraneo di Testaccio, sfilano i politici e le icone dello spettacolo di quegli anni, nei loro colori eccessivi, sgranati, grotteschi, colti alla luce dei flash dei fotografi o dei riflettori degli studi televisivi. Distici surreali: Antonioni e Gava, Pertini e Sandra Milo, Edwige Fenech e Susanna Agnelli; Berlusconi e Eduardo (e una saletta tutta dedicata a Cicciolina). Tutte impreziosite da cornici dorate e barocche molto simili, come fossero Tintoretto e Veronese, Hogarth e Holbein il Giovane. In “Le sette vite del Telegatto”, immortalati nella stessa posa di una squadra di calcio, ognuno con il felino dorato in mano, vediamo Giulio Andreotti, Corrado, Vittorio Gassman, Enzo Biagi, Gianluca Vialli, Zucchero e Beppe Grillo: la prima, la seconda e la terza Repubblica in un unico scatto.
Per molti politici che un tempo conducevano, davvero o di facciata, esistenze meste lo show business appariva come l’alternativa esistenziale ed estetica alle loro vite sorde e grigie. C’era quell’idea di trasgressioni, di magiche fughe, da regimi e etichette morali rigidissime, soprattutto democristiane e comuniste. Poi, mentre già si alzava la musica dell’orchestra sul Titanic, arrivarono i socialisti di nuova generazione, con quell’aria splendida da ultimi dissipatori. Arriveranno solo dopo i politici e i ministri di oggi, quelli che – come scrive Michele Masneri – “a differenza di allora non ricercano il contatto col mondo dello spettacolo, perché naturalmente sono loro che son diventati lo spettacolo”. In fondo cosa ha chiesto l’Italia ai suoi politici se non di essere bene intrattenuta? Siamo pur sempre il paese in cui, per usare un’altra citazione estera, “tutti sanno recitare, tranne gli attori” (Orson Welles). E il pubblico ora è sempre più viziato e infedele, le curve dei voti e dei sondaggi si impennano e poi precipitano come le curve degli ascolti televisivi o delle nostre frammentate soglie dell’attenzione davanti a un cellulare. Il format del futuro sarà un Parlamento che cambia componenti e maggioranze ogni settimana in base al televoto e ai like da casa, altro che le analogiche e vetuste cabine elettorale quinquennali.
Finiti i tempi in cui gli attori passavano dal set alla politica, ora è la politica il trampolino di lancio per poi ottenere una partecipazione in una gara di ballo il sabato sera in tv o un posto fisso da opinionista, più sicuro e garantito rispetto alle legislature e ai governi così precari. Ci si aggira tra questi quadri come gufi tra le vestigia di un’epoca, scrutando le perfette didascalie di Filippo Ceccarelli, con sottobraccio il suo tomo “Invano – Il potere in Italia da De Gasperi a questi qua”, la sua Ricerca del tempo perduto dopo decenni di ritagli di giornale e analisi di gesti, tic e linguaggi. Una mi resta impressa, sotto a una fotografia di Enzo Biagi seduto nella platea di un teatro accanto a Edwige Fenech, mentre in seconda fila Pippo Baudo si scherma il labiale. Dice solo: “Scetticismo e incanto”.