Digitali extraterrestri

Fatta l’ennesima risintonizzazione sto fermo un minuto davanti al televisore, a vedere tutti i canali morti dell’analogico, la serie infinita di loculi dell’etere, puntini grigi e neri e bianchi lampeggianti nel loro eterno riposo, cyberpunk ormai definitivamente passato di moda. Poi rischiaccio il pulsante del nuovo telecomando e mi rituffo nel digitale terrestre appena inaugurato, nel paradiso nitido dello switch off, garantito dalle porte d’accesso del decoder. Se con il sistema analogico un segnale flebile si traduceva in un “si vede male”, un’immagine e una voce da indovinare tra le linee e i ronzii dello schermo, con il nuovo sistema digitale invece diventa nient’altro che un “non si vede proprio”, nella precisione implacabile di uno schermo nero e di una scritta computerizzata di “segnale assente”, oppure nell’imbalsamazione di un immagine dai pixel decomposti, tanti quadratini mortalmente immobili.

Ho l’impressione che questo significherà qualcosa, probabilmente la certificazione di una chiusura, il sigillo definitivo di un trasloco, perlomeno la fine di tutta una storia epica e disperata delle tv locali, delle sgarrubatissime emittenti che pure trovavano – più o meno abusivamente – il loro posto, in qualche cantuccio dell’etere. Una storia iniziata negli anni Settanta, con decine di imprenditori-avventurieri, spesso in condizioni di piena illegalità, che cominciarono ad allacciare cavi e a piantare antenne di notte sui tetti. Ecco, io ho sempre amato le emittenti locali. Mi sembravano l’ultimo rifugio per palinsesti in preda all’anarchia. Potevo vedere televendite andare avanti per ore e poi, senza interruzione, imbattermi in strani programmi che non avrebbero cittadinanza da nessun’altra parte, cartoni animati scoloriti dal tempo, film a cui il doppiaggio sembra essere stato rifatto per risparmiare sui diritti. E poi previsioni del tempo, telefoni porno (quanto immaginario erotico nazionale è stato plasmato dalle tv locali), notiziari di quartiere, oroscopi a pagamento, cartomanti fuori di testa, mobilieri esaltati, spacciatori di tappeti persiani.

In certi periodi avevo la sensazione che fossero tutti spariti da settimane, lasciando nella stanza dei bottoni una bobina che gira in solitudine tra i rulli, senza controlli, senza l’ausilio di registi, annunciatrici, speaker, dal buio di una cabina televisiva che si poteva immaginare deserta, fino alle abitazioni dell’intera provincia, che pure si potevano immaginare deserte, se non fosse per il vuoto palpitante degli spettatori, fissi davanti allo schermo, sdraiati sui loro divani, decoder di loro stessi. Certamente molta di questa produzione massiva e residuale continuerà a essere trasmessa, su quei canali dell’ottocento e spicci del satellite, oppure dai duplex del digitale terrestre, chiaramente dominato dalla logica per cui invece che più attori ad avere una rete tv ci saranno i soliti attori ad avere molte reti tv. Ma ho l’impressione che quel vitalismo, quella carica spontanea e baraccona non ci saranno più. E’ pur vero che il panorama mediatico cambia, e oggidì le ragazzine sovrappeso di paese e certe altre sublimi meteore del trash sono tutta carne da youtube.

Per me che ho vissuto da vicino, nei primi anni duemila, pure la fiammata microscopica delle telestreet, sfruttando gli ultimi coni d’ombra nel far west delle frequenze, rimarrà il ricordo di certi scantinati arrangiati a studios che ci parevano avamposti di una lotta politica immensa, tra piccoli pirati e schiere di guerriglieri barbari che invadono occhi e menti di italiani. Romanticismi. Cazzate. Mentre mezza Roma oggi ancora impreca per gli oscuramenti dei televisori, e sui quotidiani appaiono fotonotizie di vecchiette sgomente, con lo spinotto in mano e il video butterato di puntini impazziti, mentre paiono esclamare “sto decoder der ciufolo”. Ormai l’immaginario, i gusti, il subconscio, gli oggetti del desiderio di un quinto della popolazione mondiale appartengono a lucide e impassibili multinazionali, manager freddi e apolidi che parlano solo di rating e di mercato dei format, entità che ci sorvolano dall’alto, il loro brand stampato sulle carlinghe dei satelliti in orbita. E io continuo a sentirmi analogico, in un mondo che è obbligato a diventare digitale controvoglia e senza i mezzi e le culture necessarie.


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