C’è un’Italia-Germania nella vita di ognuno di noi. Siamo sempre lì: a inseguire i sogni fuori tempo massimo, a prendere inutili rincorse per sfuggire al nostro destino (non ci si riesce mai) o per fregarcene giusto il tempo di un gol (ci si riesce, ogni tanto). Nel paese in cui le metafore crescono sugli alberi si sogna la limpidezza di un gol indiscutibile, senza contestazioni o fuorigioco, perché non sappiamo più riconoscere le cose importanti, ogni partita è quella del secolo quasi come ogni estate è la più calda degli ultimi duecento anni, e ogni riunione di capi di governo è la decisiva. Leggo sul Sole 24 Ore che Mario Balotelli sceglie “lo spreco come forma di occultamento del limite”, questo sono io penso mentre lo leggo, questi siamo noi.
C’è una ricorrenza quasi vichiana da onorare, o almeno mi piace pensare così. Boe della memoria che galleggiano nel caldo umido di un’estate italiana. Tu dov’eri la sera di Italia-Germania? Dov’eri nel 70? E nell’82? E nel 2006? Quando Del Piero gonfiava la rete nei supplementari a Dortmund, come un colpo di vento, quando l’urlo di Munch irrompeva nei televisori travestito da Tardelli. Io sono nato l’anno seguente il mondiale, nell’ottantatre, ma ricordo bene di essere stati concepito nell’ottantadue, l’estate prima, con molti clacson che strombazzavano fuori dalle finestre, con ebete felicità, e sette anni fa ricordo lo sfasamento di una stagione in cui scoprivo le mie carte, guardavo ogni partita in un posto diverso, cercavo gli amici giusti da abbracciare, vincere un mondiale o sbattere in un amore sbagliato era lo stesso modo per dire che adesso toccava a me. Lessi una volta in un libro che, la notte di Italia-Germania 4-3, Marco Tardelli aveva sedici anni e lavorava, “Cameriere d’estate negli alberghi”, e poi si ritrovarono tutti fuori seduti sul cofano della macchina, “stavamo lì e pensavamo: ma io che voglio fare da grande?”.
Dicono gli esperti di calcio che adesso i due storici modelli di calcio italiano e tedesco non corrispondono più alle reciproche percezioni dell’altrui carattere nazionale, a lungo soffocate sotto la cortina del politicamente corretto. Noi non siamo più così fantasiosi e agili, votati al contropiede, ci sentiamo incompleti e stanchi, non abbiamo goleador affamati e pure il lavoro sporco non ci viene più tanto bene. Loro sono meno teutonici e più meticci, sono sempre metodici ma hanno imparato le scorciatoie per fregare il prossimo. I pregiudizi tornano a coccolarci, ma la realtà è dannatamente complicata. Secondo me stavolta partiamo sfavoriti, siamo già predisposti alla recriminazione dello sconfitto, che a volte è un’illusione peggiore di quella che darebbe una vittoria, ma poi non si sa mai, ci viene bene fare gli eroi stando seduti e sacramentando in poltrona davanti ad uno schermo. Tanto certe partite non finiscono, non finiscono mai.