Abiti da lavoro

La classe operaia forse non è andata in paradiso, si è solo ben posizionata nelle viscere di Mas, i vecchi grandi magazzini nel multietnico quartiere romano dell’Esquilino, a due passi dalla stazione. Nel reparto “abiti da lavoro” trovo, a prezzo di saldo, cappelli da cuoco, divise da infermiera coloratissime che i giovani acquirenti modaioli dovrebbero collezionare in omaggio a Miuccia Prada di qualche stagione fa, e una pila di divise blu con ancora attaccate le iniziali di fabbriche che non esistono più. Lunghi camici da medici regalano uno scorcio da Policlinico sotto sequestro, ma la buona pariolina che scende a comprare le divise ai domestici la riconosco, e qui si muove bene, tratta i prezzi per avere lo sconto e risale come se nulla fosse. Ci sono invece quelli si aggirano con l’aria divertita di chi ha una festa in maschera la sera dopo, generalmente sono studenti fuoricorso di facoltà dagli sbocchi professionali indefiniti.

In mezzo alle uniformi ci si ferma a pensare: di quante persone, me incluso, potrei definire con una qualche precisione il ruolo sociale, o perlomeno il lavoro? Quanti bambini oggi sono in grado di spiegare che cosa fanno i loro genitori per portare a casa lo stipendio? Non è solo questione di precariato, che oggi fai l’assistente di direzione e domani la commessa e dopodomani l’autista per Ups. Salgo su un vagone della metropolitana alle otto del mattino, e in tutta onestà non saprei dire quante persone potrei riconoscere per quello che fanno, forse giusto quella guardia giurata appoggiata alla parete là in fondo, con il cappello storto, la pistola nella fondina e gli anfibi opachi. Anche degli immigrati in fila alla cassa di Mas, non saprei più dire se sono soltanto vecchi stranieri poveri o già nuovi italiani disoccupati.


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