Forse ha ragione chi sostiene che una nazionale di calcio è come è il suo popolo: gioca in difesa se il suo popolo è, in quel momento, sulla difensiva; gioca in modo estroso se il suo popolo è caloroso e per nulla timido; se una nazione è felice gioca un calcio felice, se una nazione è triste gioca un calcio triste. Il pallone prende traiettorie imprevedibili, calci che sono perizia tecnica e colpi di fortuna, ma il terreno su cui scivola è quello che abbiamo arato noi, più o meno tifosi. In un romanzo di qualche anno fa – “Il tempo materiale”, di Giorgio Vasta – ci sono tre ragazzini, che però come molti ragazzini dei romanzi moderni ragionano come fossero grandi, anzi pure meglio, e in una sera d’estate del 1978 guardano Olanda – Italia alla tv. Uno di loro, Scarmiglia, racconta la storia delle squadre di calcio, le varie scuole, cosa sono i moduli, i reparti. La strategia, che è architettura e progetto; le tattiche, che invece sono modi di adattarsi alle circostanze. Ci sono squadre che hanno strategie maestose ma tattiche insufficienti, così come ci sono squadre dalla strategia confusa ma capaci di escogitare soluzioni inaspettate, di resistere e a volte, per consunzione dell’avversario, persino di vincere. Insomma, dice il ragazzino, l’Italia appartiene a questa seconda categoria. “Gioca come se fosse ammalata, con una specie di sacco ventrale umido al centro del corpo che zavorra e rallenta. Una femmina grassa, ritrosa e ostile. Una squadra che fin dall’inizio dell’incontro fa perdere le proprie tracce, che non immagina nessun gioco e immalinconisce l’avversario attraverso una trama farraginosa e insensata di passaggi, colpetti inutili al pallone che non modifica mai, dentro, le sue atmosfere. A quel punto la partita è imbevuta nell’etere. L’altra squadra cerca di attaccare ma l’Italia oppone muraglie di noia. Dopo un poco anche l’avversario si ritrae. Tutto si allenta, ed è l’oblio. E’ allora che l’Italia, per un puro caso che però ha una prevedibilità statistica, fa dei rimpalli in avanti che sono come dei rutti, dei rantolamenti, la squadra avversaria è colta di sorpresa, il pallone finisce tra i piedi di Paolo Rossi – piccolo e turpe, le gambette glabre e il sorriso delirante – e l’Italia fa un gol. Pareggia o vince, porta via. Ingenerosa, vile, guadagnando la partita senza merito. O forse con il merito, l’unico, di avere compreso che tutto ciò che accade è indifferente al merito e che non c’è logica e non c’è giustizia”.
Forse il ragazzino romanzato aveva ragione. Oppure aveva sottovalutato che noi contiamo gli anni della nostra vita coi mondiali di calcio (eri già nato al gol di Rivera? Dov’eri mentre Zidane schiantava la testa addosso a Materazzi? Che facevi nelle notti magiche con gli occhi sgranati di Schillaci?) e la Nazionale, in fondo, la usiamo. La usiamo se vince, per fare i caroselli, vantarsi coi francesi o coi tedeschi, abbracciare gli amici. La usiamo se perde, per sfogarci contro un commissario tecnico, o contro quei miliardari sfaticati, per sentirci dalla parte del giusto, che se c’eravamo noi, o se c’era quello della nostra squadra, allora sì. La usiamo ogni quattro anni, dopo interi campionati combattuti a colpi di rivalità acerrime di campanile, per sentirci invano dalla stessa parte della barricata.