Chissà se qualcuno ancora le spedisce le cartoline. Rettangoli di cartoncino, negli angoli anche più remoti di paesi ansiosi di sentirsi al centro del mondo, ai bordi di giorni vissuti aspettando il futuro, con frecce disegnate col pennarello per dire che io sono lì, forse mi vedi, e se non mi vedi, mi pensi. Scorsi inaspettati oppure prevedibili, piagge, fiori pacchiani, cime innevate, monumenti sull’attenti, tramonti romantici, palazzi appena tirati sù, alberelli rachitici da recente trapianto nelle asole quadrate tra le mattonelle del marciapiede, nature urbane morti, talvolta sguardi ammiccanti di posti dove andai e tanto ti pensai. Le frecce calcate a biro, di solito, indicavano la finestra, o quantomeno il condominio, in cui abitava quello che aveva spedito la cartolina. In certi casi poteva addirittura capitare che la punta della freccia sfiorasse la sua stessa sagoma.Labbra spedite a un indirizzo nuovo. C’erano anche le cartoline popolari, piene di palazzi, strade, insegne di bar e negozi, passanti e utilitarie, talvolta perfino fabbriche, viadotti, stazioni di servizio. Immagini precarie dal bordo della strada, senza spegnere il motore, immagini ricolorate con rosa azzurri verdi e arancioni ad acquerello.
C’è stato un tempo, scrive Paolo Caredda in “Un’altra parte di città”, in cui “la città intera aveva il diritto di finire dentro un’immagine”. Un tipografo, un tabaccaio e un fotografo s’accordavano per mettere in produzione qualche migliaio di cartoline dei loro quartieri, poi arrivava la gente che se le comprava e cominciava a cercare casa propria. Un’età d’oro in cui “anche l’uomo medio poteva circolare liberamente nel mondo dell’immagine”, fotografato casualmente mentre attraversava la strada o leggeva il giornale su una panchina. In cui anche i bambini potevano essere ritratti senza denunce e le insegne potevano essere immortalate senza condanne per pubblicità occulta. E poi da qualche parte, in un angolo, in una piega appena sgualcita, un oscuro spirito ribelle contro la normalità, qualche dettaglio che sfugge verso il disordine, l’imperfezione, la sporcizia. Forse veniamo da lì, e non ce ne ricordiamo. Giriamo i raccoglitori davanti ai negozi e ogni volta che arriviamo in un posto nuovo ci sembra di trovarci molto di conosciuto, come fotogrammi di altrove che si sovrappongono alle strade, alle insegne, ai bar, ai lungomare, ai palazzi, alle salite e alle discese per cui il corpo è già passato, in un tempo e luogo che quasi mai è possibile definire. Poter dire “questo sono io”, bastava questo, come basta adesso, con un telefono che fa clic davanti alla faccia, per dimostrare che in fondo il tempo è stato clemente con noi.