
Mare e carbone
A metà del pontile ero sul mare. Avevo solo cielo e mare e gabbiani attorno a me. E qualcuno ogni tanto che correva solitario. Camminare sul pontile, su quello che fino al 1993 è stato il molo di scarico di materiali destinati all’industria pesante, fa sentire come sospesi sopra un mondo estinto di carbone e acciaio, guardando attorno i confini del golfo di Pozzuoli, e tra le isole lontane questo orizzonte che pare un miraggio. Il mare è bellissimo e dunque colpevole, perché da sempre alibi poetico per ogni problema pratico, troppo bello per pensare che un tempo qualcuno abbia deciso di far sorgere qui un’industria così grande e feroce, e allo stesso per arrendersi all’evidenza che doveva essere speciale lavorare qui, tra il fuoco e l’infinito, in questa provincia di vulcani.
Mi giro dietro, dall’altra parte, e vado incontro ai resti di una civiltà abbandonata, le altissime torri, i fabbricati, i terreni incolti e, fusi nello stesso spazio, l’immaginazione del futuro e il rimpianto del passato. Dei totem abbandonati da chissà quale esperimento, i resti di un incendio, un muro che costeggia la strada. Cosa sarebbe più bello, mi chiedo: che tutto restasse fermo, così com’è, monumento a un futuro disperso mano nella mano insieme al passato, come certe coppie che vengono qui perché non hanno il coraggio di lasciarsi. Oppure che tutto cambiasse, lasciando il brivido e il rischio di qualcosa che potrebbe essere diverso da quello a cui eravamo abituati o da quello che soltanto speravamo. Arrivato in fondo al pontile c’erano ragazzi e ragazze che si baciavano, con gli zaini ammucchiati sotto la balaustra. Un fotografo seduto al cavalletto aspettava che il gabbiano passasse nel suo obiettivo. C’era il mare, c’era il vento.