Trionfi e lamenti si accumulano su Roma, sotto le gigantesche figure stampate sul muraglione tra ponte Mazzini e ponte Sisto, affianco a quel Tevere che solo a tuffarsi potrebbe uccidere, oppure trasformarci tutti in supereroi di periferia, che non sanno bene che farci con tutti quei superpoteri (“ma te sei ‘n supereroe, mica poi anna’ a rubbà! C’hai ‘n sacco de gente da salva’. E’ pe’ questo che c’hai i poteri”). Anche i bambini si divertono a correre, e pure gli immigrati di passaggio alzano lo sguardo, e certo non sanno niente di Pasolini o di Marcello e Anita, di Aldo Moro o di Marco Aurelio, poveri loro e beati loro, che dovranno fare i conti con nuovi trionfatori e nuove vittime, e capire pure a loro quale ruolo toccherà.
William Kentridge ha avuto l’idea di disegnare questi personaggi nello sporco, nella polvere, nell’umido che avvolge i muri, nella zella come dicono i romani. Ha ritagliato lo sporco e l’ha trasformato in figure, che poi saranno riassorbite dalla stessa materia in cui sono state create. La lupa, l’angelo, l’eroe, il martire, la star del cinema e il bersagliere, il vincitore e il vinto sono fatti della stessa tragica materia, zella strappata all’indistinto che l’indistinto presto o tardi riavvolgerà. Scompariranno loro, resterà il fiume limaccioso che scorre, dove ogni tanto qualcuno cade giù, fatto fuori mentre pensava di essere eterno.
Anche adesso che la sporcizia disegna i confini della nostra vita in questa città, immondizie non raccolte, problemi non risolti, arrabbiature che girano a vuoto, istituzioni che si ingolfano, pare quasi un sollievo pensare che qui nessuna presunzione, nessuna superbia viene accettata, perché ogni romano, anche il più piccolo, anche quello adottato, sa che persino i papi e gli imperatori sono fatti di materia fragile, come tutti sono attimi fuggenti. Anche ai marziani s’era fatta l’abitudine. E ogni attimo, pure questa domenica pomeriggio di sole in faccia al Tevere troppo biondo, pare prezioso, come un regalo immeritato.