Bandiera a stelle

Ci sono persone che ancora prendono il treno all’alba per andare nella capitale a sfilare per strada non contro qualcosa – che è giusto, anzi fondamentale – ma per qualcosa. In favore di un’idea, per sostenere una causa. C’è chi esce di casa in un giorno di festa, scansando le aspettative disattese, le speranze frustrate, le paure nuove che si accumulano ogni giorno, e progetta di andare a una manifestazione non per protestare contro un’ingiustizia che lo riguarda ma per un’idea di futuro che in fondo mi pare astratta, generale, per un interesse collettivo che non presenta nell’immediato nessun beneficio concreto e quantificabile per chi manifesta. Mi sembra una cosa d’altri tempi, invece appartiene con ostinazione anche a questi.

Non avevo mai visto una marcia per l’Europa, un corteo di bandiere blu a stelle gialle, e le stelle che cadevano sulle spalle di ragazzi e ragazze ben vestiti e sereni, viaggiatori interconnessi e migranti fortunati. Lontani da loro i 27 leader che sul vicino colle del Campidoglio firmavano l’ennesima solenne dichiarazione, lontani come gli sconfitti delle periferie ai confini delle città, degli aeroporti, dei centri di accoglienza, dei palazzi di vetro. Con gli occhi sui telefonini, dove già aveva avvisato di stare bene dopo l’ultimo attentato in una città dove stavano o avrebbero potuto essere. Vecchia Europa incapace di sedersi e riprendere a sognare, amare, giovane Europa incapace di alzarsi e combattere, forse odiare. Europa con cui adulti arrabbiati finiscono per prendersela, non potendosi ricordare le tragedie nazionali dei nonni e dei bisnonni. Anni dieci, anni venti, anni trenta: l’impressione comincia ad essere che cambia il secolo ma noi in fondo restiamo uguali.

Dicono tutti che la prima generazione che ha cominciato a sentirsi europea è quella che chiamiamo approssimativamente generazione Erasmus, che andava a fare le vacanze studio a Londra o progettava un Interrail tra Parigi, Bruxelles e Amsterdam.  Altri dicono che un ideale europeo dovrebbe rinascere oggi a Lesbo o a Lampedusa, se ragazzi italiani o lituani o francesi o greci riprendessero in mano una nuova sfida di fronte a coloro che arrivano a cercare una terra che noi non conosciamo più. Un manifestante parla del movimento Pulse of Europe, sceso in piazza in sessanta città europee, nato su dall’azione di una coppia di Francoforte. In nome “dell’Europa, quella pensata al confino di Ventotene da alcuni giovani antifascisti che seppero vedere oltre la distruzione dei bombardamenti durante la guerra, non voglio arrendermi a chi vuole dividere, costruire muri, respingere chi è in fuga da guerre e fame”. La consapevolezza di poter sempre decidere, di essere chiamato a fare politica per qualcosa di più grande, la vertigine di essere tra coloro che possono riuscire a cambiare in bene il corso degli accadimenti opponendosi a un marcio spirito del tempo. Il terrore di essere una minoranza di illusi fortunati. E splende un altro giorno su questa Europa malandata, multiculturale, con gli spiccioli in tasca.


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