Una sfilata di anfore, contenitori, serbatoi, cisterne, sulla strada provinciale tra Gaeta e Formia. “Vanno via come il pane, anzi come l’acqua” e ride il venditore, ne mostra alcune dall’apparenza mimetica, color argilla, “ti sembrerà di avere un’antica anfora romana sul balcone”, pare che una uguale uguale l’abbia comprata anche il sindaco, per non dare nell’occhio di fronte ai concittadini esasperati. “Mi sono fatto l’autoclave” sussurra un amico, come per metterti a parte di una confidenza, di un segreto, quasi a volerti rassicurare che non sarà questo ad allontanarlo dalla lotta, a renderlo un privilegiato che ha messo le sue barche all’asciutto, quasi come il compagno di scuola della canzone di Venditti, ti sei salvato dal fumo delle barricate e dalle docce con le bottiglie o ti sei fatto l’autoclave pure tu?
Dicono che anche a Roma razioneranno l’acqua, da fine luglio. Roma, la città degli acquedotti millenari, delle fontane eterne, dei nasoni che appaiono nel tremolio dell’aria rovente come fate morgane, come oasi scintillanti di luce zecchina. Per me la siccità dei rubinetti è quella di certe estati di provincia meridionale da bambino, ma anche il presente ogni volta da un paio di mesi quando arrivo a Gaeta e trovo case piene di taniche e bottiglie, e giardini e balconi condominiali carichi di serbatoi che ronfano e singhiozzano nell’arsura, appena i tubi si riempiono. Un amico ha comprato su Amazon una doccia da campeggio, un altro si è trasferito in una seconda casa di campagna miracolosamente scampata alla crisi idrica. Tutto cambia nell’ordine delle priorità quando il tuo pensiero, appena tornato a casa la sera, si riduce a quanto sapone usare. Il popolo si abitua a tutto, anche alla mancanza d’acqua; le mamme fanno piatti e lavatrici prima che vada via. “Alle sei torna a casa per la doccia – dicono ai bimbi – che va via l’acqua”.
Sembra ieri al mio paese l’inaugurazione in piazza della “fontana artistica”: un incongruo San Francesco circondato da schizzi d’acqua, giochi di luci colorate, tutto a ritmo di musica. Altro che “humile et casta et pura”, la povera sorella acqua. Sembra di vederli ancora lì: il sindaco, il parroco, gli assessori, le autorità civili e militari, la banda musicale. Applausi in superficie mentre sotto terra i tubi dell’acquedotto marcivano e perdevano acqua sotto l’incuria di decenni di gestioni pubbliche e private, pronti ad arrendersi alla secca della prima siccità. Per chi ha sete non c’è nulla di più blasfemo dello spreco e dell’incuria del più prezioso degli elementi. Né il santo patrono il cui percorso è stato deviato fino alla fontana, né il girotondo di protesta di alcune centinaia di cittadini hanno risolto nulla. È l’emergenza, come al solito, che ci governa: serve un dissalatore, serve una nave-cisterna, serve un appalto speciale e veloce, serve chiudere gli occhi con l’alibi della fretta, del tempo che manca. Se non si conosce il territorio, se non si ha coscienza dei cambiamenti della natura e della manutenzione delle opere dell’uomo, se non si è mai visto una sorgente, allora il rubinetto resterà soltanto un prodigio dovuto quando l’acqua scorre e una maledizione inspiegabile quando l’acqua manca.
Bisognerebbe almeno una volta provare a lavarsi i denti con una bottiglia per avere solo una vaga contezza di quanta acqua ogni giorno usiamo senza farci caso. Forse ha ragione chi dice che basterebbe toglierci l’acqua, e poi peggio ancora toglierci l’elettricità, per vedere la patina di civiltà che ci ricopre scomparire come un velo sottile, sciogliendosi al sole. Comprerò anche a Roma un paio di taniche, una cisterna, forse pure un’autoclave. Tutto scorre, dice il filosofo, ma qui tutto si prosciuga, si blocca, si incupisce.