Trasfigurazione d’identità

L’impiegato dello sportello comunale si sporge per guardare meglio: l’altezza, il colore degli occhi e quello dei capelli superstiti, inutile contraddire, distinguere, specificare. Intanto la plastica che foderava la vecchia carta di identità ha assorbito i colori, i tratti somatici, i contorni dell’io di qualche anno fa, come una sindone, una trasfigurazione di me stesso, sudata dagli anni, dai viaggi, dal sudore delle tasche e dei portafogli, dalle mani dei controllori. Delle foto incollate sulle carte di identità è stato detto: “è la foto di riconoscimento, ma il solo che non si riconosce è il fotografato”. La legge non consente di ridere e sorridere sulle foto dei documenti, il certificato di esistenza in vita richiede l’immobilità dello sguardo da morto. “Non fare smorfie” mi dice il fotografo, mentre mi stringo su uno sgabello, nell’angolo di una stanzetta bianca, circondato da pose di felicità matrimoniali, bambini su prati verdi, perfino lo sguardo di un papa in un santino dietro la cassa. Senza smorfie mi sento come se perdessi la faccia. Michele Smargiassi, giornalista fotocrate, analizzatore di migliaia di foto, una volta ha scritto: “Mettersi in posa è l’unica arma in mano alla vittima consenziente di un ritratto”. Finché le nostre smorfie rimarranno per anni, decenni, magari secoli, orfane del motivo per cui le abbiamo fatte, appiccicate ai nostri volti come un attributo, una firma, un discorso senza parole, che ci esprimerà davanti a posteri sconosciuti. Come carte di identità sbiadite, che hanno perduto il loro proprietario. Così certe volte è il documento ad essere falso, la didascalia dei dati anagrafici sorpassata, mentre è la foto disprezzata che per sempre resterà vera.


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