Sanpa

Io avevo otto, dieci, dodici anni, però mi ricordo. Mi ricordo dei drogati, li chiamavano così, mi ricordo che si potevano vedere, anche in provincia, su certe panchine, parchi, muretti, marciapiedi, con i giubbotti di jeans un po’ laceri, gli occhi persi, i capelli spettinati. Avevano attraversato una porta da cui poteva passare chiunque, il figlio dell’avvocato o quello che veniva dalle case popolari, la ragazza che fino all’anno prima prendeva tutti dieci a scuola e il tipo che era sempre stato un bambino cattivo. Le loro madri, i loro padri erano guardati con compatimento, poveretti, risucchiati nel gorgo della disperazione, delle nottate senza sonno, con i gioielli e i soldi che scomparivano dai cassetti, le crisi, i pianti, le urla, quei momenti in cui i loro figli diventavano irriconoscibili, peggio che estranei, a chiedersi intanto di chi fosse la colpa. Mi ricordo che se ne parlava, coi grandi a tavola, ogni tanto a scuola, spesso nei telegiornali mentre esplodevano bombe, arrestavano politici, eleggevano pornostar. Pure di quell’omone coi baffi si parlava molto, mentre veniva osannato in televisione e poi però associato a notizie e sospetti sempre più inquieti, oscuri, paurosi. Giurerei di averlo sentito dire sottovoce, in qualche riunione di famiglia, che quel ragazzo perso lì forse bisognava solo mandarlo a San Patrignano, anche se c’era la fila, anche se non sarebbe forse più uscito da lì. Mi ricordo, forse perché all’epoca la bolla, anche quella in cui crescevamo noi bimbetti, non era così impermeabile come adesso, le cose del mondo in qualche modo passavano, quelle brutte non si potevano cancellare, si infilavano addosso, restavano da qualche parte, per fortuna.


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