Le notti del Cocco

Per chi era nato come a Gaeta Claudio Coccoluto era uno che ce l’aveva fatta, uno che dal negozio di elettrodomestici di suo padre sul lungomare, dove si vendevano anche i primi favolosi impianti stereo che negli anni ottanta cominciavano a troneggiare nei salotti delle coppie appena sposate, era riuscito a scalare il successo, suonando nell’empireo dei club di Roma, Milano, Londra, addirittura New York. Ma chi era cresciuto in quegli anni sapeva anche una cosa: che era la musica, quella di quei luoghi fantasmatici e periferici chiamati discoteche, quella elettronica, quella mixata logorando puntine di giradischi, creando ad orecchio scratch dissonanti e meravigliosi, che poteva all’epoca raggiungerti ovunque, anche nei capannoni di periferia, nei garage, nelle soffitte, nelle spiagge di provincia. Nessuno immaginava all’epoca che quella potesse chiamarsi arte, anzi chi la faceva era guardato come un alieno, con gli occhi dello scetticismo e dell’eterno disprezzo per le novità che unisce ogni generazione all’insaputa della successiva.

Eppure Claudio Coccoluto, “gliu’ figl’ d’ Coccoluto delle lavatrici”, conquistò il mondo, ma prima ancora fu quella musica, quel divertimento fisico, sudato, ritmato, quell’assembramento di corpi in un unico luogo in un’unica notte che pareva potesse ripetersi per sempre ad arrivare fin dai ragazzi di provincia e a cambiarci per sempre. I nostri cugini più grandi volevano fare tutti il disk jockey e noi ci facevamo aiutare da loro per collezione i flyer coloratissimi delle discoteche e delle serate che si ammucchiavano sui banconi dei bar e sulle scrivanie delle camerette. Il Seven Up che poi esplose con una bomba, lo Zen, il Sombrero, e poi l’Histeria, il Veleno, l’Altro mondo… Oggi qualcuno di loro si può vederlo ancora, dove c’è da suonare in piazza, sempre pronto col mixer audio e la consolle. C’è chi ci ha ripensato, dopo aver mollato il posto fisso, coi figli cresciuti, è tornato a fare le serate. Sempre a cento all’ora anche se l’orologio spesso è impietoso e le notti sono popolate di nuove creature, fantasmi che prima non c’erano.

Il Cocco, come lo chiamavano tutti, era tornato in un Capodanno di qualche anno fa a Gaeta, per una festa in piazza che raccontano epica, con la consolle piazzata sul balcone del vecchio municipio nel quartiere medievale. Una di quelle sere in cui tutti raccontano di esserci stati, anche chi non c’era, una delle ultime volte. Forse è per questo che oggi, in questo tempo di musica spenta e porte dei locali chiuse, mangiate dai rampicanti, la notizia che il Cocco se n’è andato per sempre ci riempie di un dolore particolare, di una nostalgia diversa dalle altre, della gratitudine per chi qualche volta ci ha fatto sentire vivi anche se forse erano solo ormoni e adrenalina. E bisognerebbe ritrovare il pensiero di quando il giorno dopo la discoteca ci si alzava sfatti e malinconici per andare a lavorare, quell’incrollabile certezza che tanto ci sarebbe stata un’altra festa da qualche parte, qualcosa in fondo che assomigliava alla fede.


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