Appena in tempo

Sono stato a Gerusalemme un mese e mezzo fa, avrei voluto andarci da una vita, ci sono stato pochi giorni. Un mese e mezzo dopo c’è chi mi dice “vedi, hai fatto appena in tempo”. Io alzo le spalle e penso che di Gerusalemme, e di quella che per una convenzione storica che si presta a mille metafore e svariate amare considerazioni chiamiamo Terra santa, si poteva dire che il tempo fosse finito già dieci anni fa o venti, o cinquanta, o trecento o mille e due. C’è chi sul concetto della fine del tempo, in quel luogo, tra quelle mura, ha costruito religioni millenarie e c’è chi ha investito in eterne proprietà immobiliari, come i circa centocinquantamila fiduciosi ebrei che hanno scelto come luogo di sepoltura le pendici del Monte degli Ulivi, dove è previsto che un giorno la terra si fenderà in due e Dio verrà a resuscitare i morti. Ora immagino che Gerusalemme sia in questi giorni come era ogni sera, quando scendendo la notte, passata l’orda dei turisti, la città esce del tempo, e tra le vecchie mura e le strade strette con le botteghe sprangate si vedono solo ombre che passano in silenzio, ortodossi a passo svelto, monaci incappucciati che sbucano da un’arcata per sparire in una laterale, adolescenti palestinesi che accelerano il passo di fronte ai soldati israeliani in mitra e mimetica, appena più grandi di loro.

Oppure succede che all’improvviso il tempo acceleri, lo spazio si faccia soffocante. Quando stavo lì fu il rumore netto, improvviso, di due colpi di pistola, nel suk verso la torre di David, la folla di turisti che ripiega su se stessa, qualcuno che cade, qualcuno che tenta di entrare in una bottega ma il passo gli viene sbarrato. Poi, una volta in albergo, su uno dei tanti canali sui social, compare il video dell’accaduto: quattro soldati equipaggiati di tutto punto contro un negoziante, gli intimano di sdraiarsi a terra, lui non lo fa, uno dei militari spara due colpi in aria. Ordinaria amministrazione, soprattutto in un venerdi di preghiera, mi dicono.

Il tempo e lo spazio, lì dove più di un dio fece capire che non appartengono agli umani se non in prestito, hanno valori e misure inconciliabili. Diversi per ciascuno. Il tassista palestinese, che dice di conoscere ogni singola pietra di Gerusalemme, indicandola al di là della collina, ma non ci può tornare da vent’anni. La famiglia che nel museo della sinagoga guarda i filmati e le foto del quartiere ebraico bombardato nel 1948 e piange come fosse ieri. I cristiani cattolici e ortodossi di varie nazionalità che si guardano ostili nel labirinto del Santo Sepolcro. I pellegrini intruppati nelle loro bandierine che vanno solo nei propri luoghi sacri senza degnare di uno sguardo quelli altrui. I ragazzi tutti tonici tutti bellissimi che sciamano sul lungomare di Tel Aviv come una razza tartarugata ed eletta, che vive in una bolla a pochi chilometri dall’inferno. La signora siriana, portata a braccetto dalla figlia, che immerge i piedi nel fiume Giordano, ormai un rigagnolo fangoso, tra i fili spinati da un lato e dall’altro del fiume che fa anche da confine, luogo del battesimo che è già crocifissione. Le donne est europee di fede ortodossa che aspettano sotto il sole allo zenit fuori dal portone del monastero di Mar Saba, una cascata di torri, cupole e muraglie, dove solo gli uomini possono entrare. Il tempo dei checkpoint, il tempo che ci mette una soldatessa a guardare il mio passaporto, in piedi e in silenzio, senza guardarmi negli occhi, e il tempo e lo sguardo riservato ad altri della stessa fila. Lo spazio dei villaggi dei coloni sulle colline. I noleggiatori di croci da trascinare all’inizio della Via Dolorosa. Gli ultraordossi nerovestiti che sciamano verso il muro del pianto. La chiave gigante scolpita all’ingresso di un campo palestinese, simbolo di tutte le chiavi di case che non esistono più. I turisti che ciondolano davanti la tomba di Cristo, con la minerale in una mano e il cellulare nell’altra. I turisti che ciondolano davanti il muro di separazione, con la minerale in mano e il cellulare nell’altra. Lo spazio di un paese dove in Cisgiordania il bip del telefonino – Benvenuto in Israele! Benvenuto in Palestina! – trilla ogni due minuti, ad ogni rotonda c’è la foto di un “martire”, uno spazio ravvicinato, un tempo accavallato.

Che non ci sia più né tempo né spazio è la sola soffocante certezza che mi aveva accompagnato in quei giorni. Era come se tutte le questioni, le pazzie, le vicende storiche di cui ciclicamente avevo sentito parlare fossero lì sul tavolo, a volte esposte come mercanzia, sotto gli occhi di chiunque, e al tempo stesso fossero rimosse, non viste, date per scontate o per perdute. Forse il destino di quella terra è incarnare per sempre quella crisi perpetua che in fondo siamo noi, che è l’espressione di ciò che siamo profondamente. Il tempo in cui crediamo di abitare, sottili e fragili sopra la nostra natura di lupi. Lo spazio che ci illudiamo di mettere tra noi e ciò che respinge, tra qui e laggiù. Israele e Palestina sono nomi letti e sentiti mille volte, bandiere nei cortei, echi di maledizioni bibliche, lunghi articoli che subito ci stufiamo di leggere, e ora anche quando sono luoghi in cui ho camminato, persone con cui ho parlato, strade che ho percorso, continuo a sentirmi uno che non ha fatto in tempo a capirli, o forse non riesce.


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