Utopie di strapaese – capitolo 4/ Strapaese 2.0

Non è facile accorgersi di quanto cambi il mondo attorno a noi, in poco tempo. Non il grande mondo, il pianeta coi suoi destini. Ma il piccolo mondo che crediamo di conoscere, il territorio che ci circonda, la nostra città, il paese, il quartiere, le case e le strade vicino casa. Mi è capitato recentemente di viaggiare in auto nelle aree policentriche e pedemontane, nel centronord padano e inquieto, disseminato di fabbrichette e piccoli paesi. Ho visto anche io molti dei cartelli che fiancheggiano le strade annunciare che lì vicino sta sorgendo, oppure è già sorto, un nuovo insediamento abitativo, un Villaggio Margherita oppure Quadrifoglio, un Quartiere Europa o Miramonti. Il resto della descrizione era identica a quella che, con occhio più esperto del mio, aveva tracciato il sociologo Ilvo Diamanti in una delle sue “mappe”. «Tanti insediamenti grandi o piccoli, disseminati di palazzi, villette a schiera, appartamenti di varia metratura, garage interrati. Intorno: prati un po’ esangui, strade e rotonde. Rotonde, rotonde e ancora rotonde. Magari una pista ciclabile. Al centro una piazza – veramente finta – attrezzata con panchine e magari un prato. Perlopiù ridotta a parcheggio, dove i bambini non giocano e gli adulti non si fermano a parlare. Accanto: altri quartieri e altri villaggi nuovi. Sorgono senza seri progetti di integrazione, socializzazione. Senza politiche finalizzate a costruire relazioni sociali, oltre agli immobili. Né ad alimentare la vita pubblica, oltre alla rendita privata. Località artificiali, dove confluiscono migliaia e migliaia di persone. Migliaia e migliaia di estranei. Di stranieri, di immigrati: anche se sono veneti, lombardi, marchigiani. “Italiani veri”: da generazioni e generazioni. Ma in realtà: apolidi. Abitanti del Villaggio Margherita o del Condominio Europa». È così – conclude Diamanti – che siamo diventati «un paese di stranieri, individui poveri di relazioni, sempre più soli e impauriti, che passano la gran parte del loro tempo in casa, con scarsi ed episodici contatti con il mondo circostante»[1].

D’altronde tutto ha un prezzo, e non si può pretendere di conquistare il benessere senza rinunciare a qualcosa. Può essere un pezzo di paesaggio, un frammento di ambiente, un metro di territorio, un po’ d’aria, un angolo di orizzonte. E via così, una cerchia di relazioni personali e sociali, una scheggia di vita quotidiana, un pezzo di innocenza politica, un mattone di qualche utopia crollata. Non per questo è il caso di tornare a replicare quella famosa e nostalgica ballata di Celentano sul ragazzo della via Gluck[2].

Non a caso esempi e storie simili fanno breccia anche all’estero, in panorami culturali differenti dal nostro eppure paradigmatici. Basti pensare a Celebration: un paese edificato nel 1996 negli Stati Uniti, bonificando un territorio paludoso nella contea di Osceola, in Florida. Ideato, progettato e inizialmente amministrato dalla Disney Corporation. Celebration non assomigliava tuttavia né ai fantasmagorici sogni urbanistici da cui era ossessionato il defunto Walt Disney nè ai ben più celebri parchi di divertimento modello Disneyland. Piuttosto sembra avere una vaga rassomiglianza con Milano Due.  Celebration è figlia di quello zelante movimento di pianificazione urbanistica che è il New Urbanism: il quale ha dichiarato guerra allo sviluppo caotico delle periferie cittadine e si è incaricato di creare un’alternativa basata su vincoli sociali e comunitarismo tradizionale. E una comunità vera è tale se risponde a criteri di chiusura, di barriere verso l’esterno (il discorso si potrebbe ampliare, passando dai racconti “condominiali”di Ballard fino alle recenti cronache delle rivolte nella banlieue parigina). Il richiamo per i nuovi “pionieri” di queste città chiuse e semi-private è quello già visto e riconosciuto in tante esperienze: ritrovare una fantomatica età delle quiete, della sicurezza, della stabilità, quando la società non era ancora minacciata dai pericoli della modernità. La nostalgia per la “vita tranquilla” di un tempo, un passato rivestito da una sorta di verginità rifatta, coi suoi topos sempre uguali a loro stessi: i vicini di casa amichevoli, i bambini che giocavano per strada, i quartieri sicuri da ladri e spacciatori, la campagna non troppo lontana. Così, da quelle lungimiranti ricerche di mercato di fine anni Ottanta, a Milano come negli States, emergeva la doppia identità dei sostenitori del neotradizionalismoo: da un lato sensibili alla possibilità di liberazione e protezione individuale delle nuove tecnologie e alle sirene del marketing delle merci, dall’altro lato altrettanto affamati di roba autentica, originale, apparentemente immune al commercialismo di massa. Celebration – come, più in piccolo, Milano Due – viene progettata per gente così. La magia del sogno si è persa ed è rimasta solo l’ossessione per il controllo. Come spesso accade nella vita.

Le cose cambiano. Anche in una società immobile (e tendente all’immobiliare) come quella italiana. Un Paese dove la casa, possibilmente di proprietà, suddivisa per ogni famiglia, «è una vocazione nazionale». È interessante verificarlo con alcuni dati. Negli ultimi due decenni, e soprattutto negli ultimi anni, il processo immobiliare sul territorio italiano ha assunto un’accentuata velocità e un’estensione di forte impatto. Secondo dati Eurostat rielaborati dal Politecnico di Milano, le costruzioni in Italia hanno sottratto all’agricoltura circa 2.800.000 ettari di suolo. Ogni anno si consumano 100.000 ettari di campagna. D’altra parte l’Italia è anche il primo paese d’Europa per disponibilità di abitazioni: ci sono circa 26 milioni di abitazioni (di cui il 20% non occupate), corrispondenti a un valore medio di 2 vani a persona. Ragionando sui dati Eurostat di Germania e Francia, pure questi presi dall’analisi di Diamanti, emerge che negli anni Novanta l’Italia ha urbanizzato un’area più che doppia di suolo rispetto alla Germania (1,2 milioni di ettari) e addirittura 4 volte quello della Francia (0,7 milioni di ettari)[3]. Circa 10 milioni di stanze sono state tirate su fra il 1995 e il 2006, dice l’Istat, da sommare a capannoni industriali, altre iniziative produttive, infrastrutture[4]. Soltanto dal 2003 al 2008 sono state costruite circa 1.600.000 abitazioni, oltre il 10% delle quali abusive. Per contro, è noto che, da vent’anni, la popolazione in Italia non solo non è cresciuta ma è calata sensibilmente. E solo negli ultimi anni ha dato segni di ripresa, grazie all’apporto degli immigrati. Persone che tuttavia, in questa fase, non hanno la minima possibilità di accesso alle case che si costruiscono. Insomma, il nostro Paese si è ulteriormente urbanizzato «in modo ampio, rapido, violento»[5]. Ancora una volta, come s’era detto negli anni del boom, siamo al devastante motto del «più case si fanno più ce ne vogliono». Non c’è, infatti, corrispondenza con la domanda immobiliare, poiché nel frattempo di edilizia popolare o a prezzi contenuti, per esempio, se ne è fatta pochissima. Ci sono ragioni che solo in parte si possono ricondurre a una “domanda sociale”, dovuta alla smania italiana di investire “nel mattone” e comprare case di proprietà per i figli. In molti comunque ci hanno guadagnato: gli immobiliaristi, le banche, il circuito finanziario che ha materializzato nell’edilizia i flussi di denaro facendo da traino per la crescita economica, fino a che la “bolla” non è esplosa con l’arrivo della crisi, gli enti locali che si sono finanziati in “autonomia” grazie a tasse sugli immobili e oneri sulle licenze urbanistiche, impresari, proprietari di terreni, fino a una manodopera sfruttatissima e malpagata su cui hanno contato molti immigrati di basso ceto. In tutto questo, però, tanto si è perduto e consumato: il territorio, l’ambiente, con l’arrivo della crisi anche lo sviluppo e i risparmi, più a lungo termine i legami di comunità, i luoghi e i rapporti sociali[6].

Allo Strapaese si unisce un timore di rimanere letteralmente senza paese. Da un lato è vero che rispetto alle linee di tendenza dello sviluppo urbano globale, almeno fino ad oggi, in Italia alcuni fenomeni di mutamento appaiono relativamente attenuati. Nonostante i problemi esistenti, nelle nostre città non vi è nulla di paragonabile rispetto a quanto è possibile trovare in altri contesti. Ciò si spiega con vari fattori, che comunque non hanno reso immune il “Bel Paese” da scempi e devastazioni sul suo territorio. In primo luogo, l’Italia dispone di un sistema urbano che ha la doppia caratteristica di essere molto antico ed estremamente ramificato. La presenza di numerose piccole e piccolissime cittadine ha protetto il territorio dalla formazione di conurbazioni sterminate, come quelle che si trovano nel Sud del mondo ma anche negli Stati Uniti. Molte città qui considerate medio-grandi andrebbero considerate ormai medio-piccole in uno scenario globale. Inoltre esse sono collocate in scenari in contesti regionali molto articolati e gelosi delle proprie prerogative rispetto all’estensione dei capoluoghi. Semmai si vanno diffondendo conglomerati regionali, come nel caso di Milano e della Lombardia ma anche nell’area napoletana o nella zona attorno a Venezia. In secondo luogo, l’Italia dispone di una ricca tradizione in termini di radicamento culturale, socialità diffusa, infrastrutture istituzionali. «Un paese di compaesani» come lo ha definito, con una formula felice, il sociologo Paolo Segatti[7]. Una grande miniera di culture locali, reticoli associativi e relazionali. Rimane forse come unico sfregio a questo panorama quello di certi quartieroni periferici “alieni” costruiti negli anni Settanta, usando pratiche architettoniche mutuate da altre culture. In terzo luogo, bisogna tenere conto del processo di periferizzazione del nostro Paese rispetto alle dinamiche più centrali e veloci del nostro tempo. L’Italia insomma rimane indietro, cresce a ritmi meno veloci, impantana perfino la sua qualità della vita. Tante ragioni per descrivere il peso di quella che è l’altra faccia della medaglia, forse ormai predominante, e cioè una “inadeguatezza localistica” del nostro Paese[8]. Come spiega Mauro Magatti, «in un tempo che abbiamo visto essere segnato dalla mobilità e della comunicazione, l’Italia resta un Paese dove ci si muove troppo poco, ci si confronta troppo poco, dove il grado di integrazione culturale è ancora molto basso, dove si tende a proteggere gli interessi locali già costituiti»[9].

Osservando tutto da un altro versante, compresi i processi sociali e i cambiamenti degli ultimi vent’anni, è inutile però fare finta di niente. Ciò che è successo in primo luogo in Italia è che il sentire sociale, i sentimenti prima ancora degli interessi, ha visssuto “l’esperienza dell’apocalisse culturale”. Come spiegò l’antropologo De Martino l’apocalisse culturale si esperisce nel momento in cui viene meno “l’abituale”. Sono venuti meno, nell’ambito di una transizione accelerata, vari elementi prima abituali: la fabbrica, ovvero il luogo di lavoro dove si tessevano relazioni sociali; il paese o il quartiere, dove si esprimeva una certa forma di abitare e di socializzare. È venuta meno la dimensione comunitaria, in cui fondamentalmente vivere in quel paese significava avere come punti di riferimento il sindaco, il maresciallo dei carabinieri, la maestra elementare, il direttore della banca eccetera: simboli di una comunità locale nella quale appariva piacevole rinchiudersi e vivere. Un modello idealtipico di riferimento, non esente da distorsioni e violenze al suo interno. Eppure, in questo vuoto è facile capire che le uniche passioni di mobilitazione diventano quelle dell’interesse e del benessere[10].

Con una definizione di semplice e definitiva eleganza, citata più volte dall’opinionista dell’Espresso Edmondo Berselli, il filosofo Carlo Galli ha concluso che la comunità si è trasformata in una gamma di immense platee televisive «implose nella privacy». In queste poche parole c’è una sentenza di condanna a tutta una condizione amorfa della società di oggi, italiana in particolare. Anziché una collettività strutturata, ecco «una moltitudine dispersa, che si addensa negli appartamenti della sottoborghesia, un formicolio umano visibile nei condomini popolari, una “nuova classe” priva di connotati, che trova come unico metro di giudizio gli standard televisivi e lo stile da sfoggiare in studio, coi consumi materiali e immaginari secondo i parametri di reddito che sono concessi».

Quel che è certo è che la città del Ventesimo secolo è stata la più formidabile opera di riscrittura del territorio da quando esiste la civiltà occidentale. Oggi la città contemporanea sembra assumere sempre più le caratteristiche di città infinita, dove si intersecano culture tradizionali in cerca di sopravvivenza, non luoghi dell’ipermodernità, centri commerciali, grandi hub di scambio di reti globali. Mentre la città medievale e moderna i confini li erigeva tra sé e l’esterno, tra centro e periferia, ora l’espansione urbana illimitata moltiplica divisioni e barriere culturali ed economiche all’interno della città stessa. Da luogo dell’utopia che si organizzava in grandi partiti o movimenti di trasformazione, la città diviene ora luogo di un’eterotopia negativa, composta da una convivenza forzata tra pezzi tra loro isolati, non dotati di rappresentanza e di rappresentazione.

Tutto ciò acquista una particolare singolarità all’interno della nostra vicenda nazionale. Come abbiamo visto, all’Italia è mancata la vita vissuta della metropoli, è mancata la storia della metropoli. La modernità italiana, anche per questo fattore, ha una rilevanza sghemba, periferica rispetto al resto del villaggio globale, senza la capacità di raggiungere gli stessi vertici, le stesse pienezze. Per questi stessi motivi la nostra storia ha cercato e trovato le sue funzioni compensative, le sue peculiarità immaginarie, i suoi strapaesi in cui rifugiarsi di fronte a una modernità che però non è mai arrivata davvero. Inevitabilmente, anche l’idea della periferia, del suburbano, risente di questa assai povera esperienza della metropoli. Almeno fino a quando, negli anni Ottanta, tale esperienza è stata diffusa in modo anomalo, caotico, postmoderno dalla proliferazione di spazi di consumo televisivi diffusi dal sistema misto pubblico-privato. La periferia si è rivalutata come audience. Come ha affermato autorevolmente Alberto Abruzzese, «ben prima di leggerlo sui libri di sociologia stranieri importati e tradotti da noi, bisognava capirlo sin da allora che, in quel sopravvenuto consumo intensivo di vita privata e insieme di vita sociale, la sfera pubblica si sarebbe rarefatta in vuoti e resistenze, effervescenze e eccessi, ma anche in detriti e massi erratici». Insomma, l’Italia si è ritrovata a vivere una dimensione post-urbana, post-metropolitana e post-nazionale senza avere avuto né una metropoli, né davvero una nazione, né un sistema urbano effettivamente moderno. Riuscendo a costruirsi, semmai, solo un comunitarismo nostalgico, il ricordo di uno Strapaese mai effettivamente accertato ma sicuramente rimpianto. Così, anche a causa di qualche eccessivo innamoramento verso le visioni pasoliniane, oggi tocca fare i conti con un’Italia di mezzo, un paese banale, forse normale, a suo modo autentico, ma che comunque va preso come interlocutore per voler imbastire finalmente un discorso sul futuro (che sia, questo, di natura politica o sociale o culturale). Un’Italia dei figli e nipoti di quei contadini o borgatari di cui parlava Pasolini o alcune vecchie ricerche sociologiche, senza un casale del mulino bianco sullo sfondo, magari ora in fila verso l’outlet insieme a tutti gli altri.

Non si può capire lo Strapaese degli anni Duemila senza prendere atto di questo spaesamento. Al giro di boa delle nuove epoche, l’idea di base che ritorna è sempre quella di un vagheggiato ritorno alla cultura campagnola e nostalgica, al rilancio delgenius loci, ai sapori di una volta contro gli intrugli confusi della modernità. Ogni Paese del mondo ha il suo Strapaese, si può dire, e per esempio gli Stati Uniti conservano il mito delle vecchie Main Street e delle quiete communities anni Cinquanta, e lo fanno rivivere artificialmente nelle loro Levittown o Celebration o Disneyland. Ma solo in Italia lo Strapaese può essere evocato, da movimento letterario e reazionario di nicchia di inizio Novecento quale era, come estetica dominante quale è diventato, filo rosso che collega punti ed esperienze diverse della recente storia nazionale, nelle sue espressioni urbane e politiche. C’è lo Strapaese nella retorica contadinista di Mussolini e nella sua utopia impaludata dell’Agro Pontino. C’è nel popolo decadente descritto da Pasolini, avanti e indietro nelle periferie moderne nostalgiche della campagna. C’è nella cultura pop massimamente cantata da Celentano, nel fulcro di ambientalismo e incompetenza che era la ballata della via Gluck. C’è nella fascinazione pubblicitaria della famiglia unita col casale e i campi di grano sullo sfondo, il Mulino Bianco e il “ritorno alla natura”. C’è nell’estetica del Berlusconi costruttore edile e urbanista, il creatore di Milano Due, poi importatore del sogno televisivo suburbano di origine americana, perfettamente riadattato al provincialismo italico. Come ha notato polemicamente il giornalista Francesco Merlo c’è lo Strapaese anche nella ruralità identitaria leghista, ultima e unica forza politica veramente radicata sul territorio, nelle piccole comunità no-future, negli intellettuali che disprezzano gli architetti e non vogliono i grattacieli, nel pittoresco meridionale, nell’ambientalismo reazionario, nei tribuni populisti che galleggiano nel malumore e riempiono le piazze, nella saccente e intraprendente retorica dello Slow Food[11]. «Insomma, lo Strapaese di Maccari dispiegato a destra e a sinistra, ma con la stessadeprecatio temporum di allora, forse più moralista ancora». Al fondo c’è un’idea falsificata, mitizzata, del passato, del “vecchio mondo” agricolo e operaio, di un albero degli zoccoli più che altro fantasticato. Il tutto per evitare di elaborare un piano strategico per il presente, di affrontare il Paese maggioritario e forse banale con cui abbiamo a che fare, che dietro i rimpianti per “il gusto pieno della vita” – come diceva un vecchio spot pubblicitario – usa (e abusa di) tutti i prodotti della modernità. Che si ritrova, nonostante tutto, con quartieri finti, piazze vuote e outlet pieni.

Quella di oggi è una forma tutta moderna di Strapaese, dove il cosiddetto “neopopulismo” si colloca come fenomeno della modernità, come esito del confronto tra identità locali e globalizzazione, senza cadere nei cliché del passato. Se ripercorriamo le tappe delle piccole grandi utopie urbane dell’ultimo secolo italiano troviamo puntualmente una corrispondenza tra fenomeni urbani e fenomeni sociopolitici. Lo abbiamo visto, e scritto: l’Agro Pontino e gli sventramenti romani stanno al regime fascista come i gloriosi Piani Ina Casa stanno alla nascita del dominio democristiano; il decadentismo dei ragazzi di borgata di Pasolini sta al filone anti-moderno di certa sinistra italiana come l’agiata e televisiva Milano Due sta alla fioritura del berlusconismo. Su tutto ciò si può adattare la coperta culturale dello Strapaese, giacché il concetto di comunità cui fare riferimento si rivela infine come un simulacro, un’invenzione di tradizioni.

L’intuizione politica di questi ultimi anni è stata proprio comprendere che il vuoto determinato dalla fine delle appartenenze del Novecento potesse essere colmato con il pieno dell’identità territoriale[12]. È quello che negli ultimi quindici anni, in Italia, è riuscito all’asse politico dominante Lega-Forza Italia. Non è un caso un’operazione epocale del genere potesse essere perseguita solo da un soggetto che fosse stato in grado di cavalcare il mutamento della tecnica avvenuto negli ultimi anni. Il grande passaggio dal fordismo al postfordismo, dalla catena di montaggio alla virtualità della tv e poi di internet. Come ha ben spiegato il sociologo Aldo Bonomi nella sua inchiesta sul “malessere del Nord”, Berlusconi, nato come imprenditore edile, ben conosce quelli cui vendeva le villette con giardino a Milano Due, segno e simbolo di un’emancipazione dal condominio e dal quartiere fatto di operai e impiegati. Quello con cui abbiamo a che fare, più che un problema di strapotere televisivo, è un problema di sapere sociale, territoriale, anche se oggi tutto sembra pura virtualità dell’apparire[13].

Radici e cause di questo fenomeno stanno nei cambiamenti del tessuto economico iniziati fin dagli anni Ottanta, nella terziarizzazione accelerata, nel manifestarsi della perdita di egemonia della vecchia “classe operaia”, nella crisi che investiva il tessuto di artigiani e piccole imprese, in molti casi schiacciate dalla nuova concorrenza globale, dell’Est Europa e della Cina. Nel conseguente profilarsi di un nuovo idolo, quello di un individualismo proprietario, essenzialmente antisociale. Inoltre radici e cause vanno cercate anche nell’esplosione dei flussi immigratori verso il nostro Paese, non sempre facili da gestire nel giro di pochi anni, il più delle volte gli stessi che avevano avuto modo di allenarsi alla nostra esibita ricchezza, grazie alle loro antenne paraboliche puntate verso di noi dall’altra parte del Mediterraneo. A tutto ciò, a migliaia di soggetti “spaesati”, “orfani”, “stressati” – per usare le definizioni di Bonomi – bisognava dare una risposta, anche se apparentemente di basso profilo. «Uno ha detto loro: “Vi do io quello che manca, l’identità, e il vostro riscatto inizierà sottolineando che siete lombardi”. È una risposta brutale, ma attraverso questo tipo di strategia è stato dato un “paese” a tanti spaesati. Berlusconi invece ha dato una “casa” a molti “sfollati”. La casa non è altro che l’ipermercato o il capannone»[14].

Non è un caso se la fase iniziale del berlusconismo si rivolgeva alla moltitudine scomposta con un messaggio apparentemente liberista, americaneggiante, con il culto della ricchezza e un retroterra edonistico. Mentre la fase finale, attualmente vissuta, rinfrancata da una nuova intesa col movimento leghista e da ripetuti successi elettorali, punta decisamente a un neocomunitarismo conservatore, identitario, vagamente compassionevole, tradizionalmente cattolico. Due facce della stessa medaglia. Come Milano Due, che mi è sembrata al contempo il paradiso degli yuppie e il rifugio dei borghesi spaventati. D’altronde è stato uno dei sociologi più richiamati del decennio, Zigmunt Bauman, a spiegare che un possibile sbocco della “modernità liquida” è proprio il “ritorno alla comunità”, intesa come espressione della domanda insoddisfatta di identità e di senso. Nel momento in cui scricchiola il progetto della modernità societaria, il richiamo alla comunità può offrire una nuova leva per la produzione di significati[15]. Comunità contro società? Basta un niente, pare, e ci ritroviamo a centovent’anni fa, oppure all’inizio di questa tesi.

Tutto ciò avviene perché i processi materiali, come direbbe il vecchio Marx, vanno in questa direzione. La forma del produrre ci restituisce un sistema in cui siamo tutti messi a lavorare in forme e modalità individuali, in una logica di velocità diffusa sul territorio: è il grande modello della fabbrica territoriale moderna e della città infinita[16]. Da un lato persiste ovunque il vecchio antagonismo tra città e campagna, cioè tra modernità e arcaismo, innovazione e tradizione, un confronto antico quanto la civiltà, specie in un Paese come l’Italia, la cui cultura europea e metropolitana è recente e fragile, e le cui radici rurali e cattolico-tradizionali sono ancora profonde. Dall’altro lato il confronto globale cui assistiamo, urbanamente e socialmente, è un altro. E ci porta a un punto di non ritorno. Mandando in soffitta la città così come l’abbiamo conosciuta. È la battaglia tra spazi pubblici e spazi privati. Lo spazio urbano, infatti, è una metafora straordinaria della società. E in questa società opulenta e sempre più diseguale, lo spazio contemporaneo, così come si sta definendo, ha sempre più l’aspetto di una «successione indistinta di enclaves chiuse, l’una contro l’altra armate»[17]. Dalla villetta suburbana al quartiere chiuso, dal centro commerciale al parco a tema, dal villaggio vacanza al parco per l’infanzia. Gli spazi collettivi pubblici, invece, sono sempre più abbandonati, privi di senso, sempre più – loro sì, per davvero – non luoghi. Piazze, slarghi, giardini pubblici sono lasciati agli immigrati, agli emarginati, ai “non desiderabili”. Lo spazio latore di senso non è più quello pubblico, lo sta diventando semmai quello privato. Gli spazi collettivi che siamo disposti ad accettare sono quelli “sicuri”, con una selezione all’ingresso, con un controllo all’interno. Perché vogliamo difendere ciò che ci appartiene. Perché temiamo il contagio.


[1] I. Diamanti, Sillabario dei tempi tristi, 2009, pp. 71-72

[2] Ibidem, p. 69

[3] Ibidem, p. 70

[4] F. Erbani, Noi urbanisti abbiamo fallito, in “La Repubblica”, 10 dicembre 2009

[5] I. Diamanti, Sillabario dei tempi tristi, 2009, p. 70

[6] Ibidem, pp. 70-71

[7] Ibidem, p. 69

[8] M. Magatti, La città abbandonata. Dove sono e come cambiano le periferie italiane, 2007, pp. 37-40

[9] Ibidem, p. 40

[10] A. Bonomi, Il chiunque e la moltitudine, in A. Abruzzese, V. Susca, Tutto è Berlusconi, 2004, pp. 250-252

[11] F. Merlo, Faq Italia, 2009, pp. 45-46

[12] A. Bonomi, Il rancore. Alle radici del malessere del Nord, 2008, p 26

[13] Ibidem, pp. 7-8

[14] Ibidem, p. 53

[15] Z. Bauman, Voglia di comunità, 2002

[16] A. Bonomi, Il rancore. Alle radici del malessere del Nord, 2008, p 53

[17] G. Biondillo, Metropoli per principianti, 2008, p. 112


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