Isola delle correnti

Cosa rimane delle acrobazie e dei naufragi, delle crisi di governo scampate e delle tragedie prevedibili mentre guardi un un telegiornale della sera. Quale opinione si forma dentro quei sei o sette minuti di attenzione, incastrati tra un dibattito all’altro, tra un gioco a quiz e un telefilm in replica. D’altronde, cosa si pretende, mica ci si può indignare o commuovere tutti i giorni. Si resta quasi offesi dal vedere tutti quei sacchi della spazzatura con dentro i cadaveri depositati sul molo di Lampedusa, carni mangiate dalla stessa speranza che le ha mosse verso l’ignoto, cinquecento morti sono troppi si dice, come se vederli morire un poco alla volta e da anni e sempre su quello stesso tratto di mare, fosse più accettabile, e pensare che proprio ieri ci si sarebbe dovuti rallegrare dell’ennesimo rilancio di governo. Cosa c’entra il governo con la strage dei migranti? Niente, appunto. Niente e nessuno c’entra, è stata una disgrazia. La crudeltà degli scafisti, l’impudenza dei passeggeri, il panico di tutti, i politici che non fanno il loro dovere, le guerre nei paesi lontani, la fame del mondo. Trovare dei colpevoli sembra un lusso da salotto, o un vizio da leghisti incalliti. Si finisce col dire le stesse cose: da oggi cambia tutto, come quando inizia un nuovo governo, oppure mai più da oggi, come di fronte all’ennesima tragedia. Non cambia mai niente, sospiri guardando le immagini di un telegiornale, provando a formarti un opinione con poco, con la poca pazienza che ti puoi permettere al tempo della crisi, quando tutti parlano ma il conto della tua attenzione è ormai in rosso. Gli unici che vogliono cambiare, da sempre, sono quelli che migrano, che mollano tutto per una vita migliore, per sogno e per bisogno.

Allora ripensi a quando ti trovasti di fronte all’isola delle correnti, nel posto più a sud dell’Italia, sulla punta della Sicilia, più giù c’è solo Lampedusa, appunto. Guardavi i barconi abbandonati alle tue spalle, dietro una rete di fil di ferro, arrugginiti dalla salsedine e dalla sabbia. Erano le barche dei migranti, sbarcati proprio lì qualche giorno prima, avevi sentito dire. E guardavi il mare che arrivava da una direzione e dall’altra, e si scontrava senza pietà, con grande fragore. Del ponte di pietra che collegava quella punta di terraferma all’isoletta col faro che stava lì, a poche decine di metri, restavano solo macerie in mezzo alla schiuma delle onde. Ogni volta lo ricostruivano e ogni volta il mare se lo mangiava, ti avevano spiegato. Proprio su una spiaggia da quelle parti, questa estate, i bagnanti si erano ritrovati di fronte una di quelle barche di disperati e avevano cominciato a fare una catena umana per aiutarli, un ponte di braccia e mani, in mezzo agli ombrelloni. Guardavi il mare, quella volta, agitato e già non più vacanziero, e senza l’intermediazione delle notizie e delle reazioni, delle liturgie e delle polemiche, delle giornate storiche e dei lutti nazionali, quel mare ti faceva semplicemente paura. Perché nessuno poteva fermarlo, assomigliava alla disperazione di quelli che l’aveva solcato sopra quei barconi arrugginiti, non tutti toccando terra.


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