Sto cercando di farmi venire in mente un’immagine più stonata rispetto ai tempi, a volte feroci, che stiamo vivendo di un parroco che lava i piedi a un’accolita di politici locali, e però non ci riesco. Le foto di don Antonio Cairo da Gaeta, in effetti, sono al limite del fetish estremo tra clero e politica. Roba impressionante, da tenere lontani i bambini e Papa Francesco. Finora s’erano visti preti e vescovi e papi che facevano la lavanda dei piedi del giovedì santo a poveri, detenuti, malati, emarginati. Il gesto simbolico è evidente: ripercorrere il momento evangelico di Gesù che durante l’ultima cena prima della crocifissione lava i piedi ai suoi apostoli, Gesù che si fa servo, umile tra gli umili. Probabilmente il messia non stava pensando né al marketing né alla campagna elettorale, e nemmeno a come finire nei boxini fotografici dei siti di notizie locali. D’altronde se don Antonio avesse lavato i piedi ai ragazzini della sua parrocchia o ai poveri del vicino centro Caritas non avrebbe fatto notizia. Invece ha lavato i piedi agli uomini che detengono il potere in città, facendo così parlare di sé.
Non che il parroco di Gaeta non sia stato ecumenico. Ha invitato maggioranza e opposizione. La consigliera del Pd e l’assessore di Forza Italia, l’ex sindaco civico con cui aveva battibeccato nella passata legislatura (il primo cittadino gli suggeriva di spendere meno in fuochi d’artificio e sponsor per le sue feste di santi e madonne, e il parroco gli rispondeva che lui i conti li sapeva fare e al posto suo avrebbero tenuto meglio pure i bilanci del Comune) e il consigliere dell’Udc appena finito sui giornali con l’accusa di evasione fiscale (non pagare le tasse è un peccato mortale secondo Papa Francesco, ma se il pontefice non perdona il parroco può sempre chiudere un occhio), destra e sinistra, mancava solo il sindaco berlusconiano (con cui pare i rapporti si siano un po’ raffreddati dopo alcune allusioni dal pulpito al fatto che la vita privata degli amministratori deve essere irreprensibile come quella politica) e qualche esponente grillino (purtroppo a Gaeta non ne hanno eletti, ma se fossi un grillino non oserei desiderare una sorpresa migliore dentro l’uovo di Pasqua).
A vederla semioticamente la faccenda è un po’ complicata. Nella liturgia cattolica – ricca di molti segni, cioè di azioni eloquenti e gravide di significato – la lavanda del giovedì santo è un gesto di umiltà. Ma il Vangelo di Giovanni già racconta che mentre stava per compierlo Gesù ricevette una protesta e un rifiuto da Pietro che non capiva quell’abbassamento del suo Signore fino a compiere il gesto tipico del servo nei confronti del suo padrone. Gesù superava quella resistenza dichiarando che, per essere in comunione con lui, occorre lasciarsi lavare i piedi da lui stesso, il Signore, capovolgendo la forma del rapporto servo-padrone. Compiuto questo gesto, Gesù chiese a tutti di capirne bene il significato: se lui che era il Maestro aveva lavato i piedi ai discepoli, questi seguendone l’esempio facciano lo stesso gli uni agli altri. “E dunque questo gesto ci ricorda che anche gli amministratori devono essere al servizio del bene e del loro popolo” ha dichiarato don Antonio Cairo. Tuttavia il senso del gesto deriva dall’inversione dei ruoli: ciò che dovrebbe essere compiuto dal subalterno, dal minore, viene compiuto dall’autorità, dal maggiore.
Nelle stesse ore di quel giovedì santo, in un’altra parrocchia a Pistoia, un altro parroco aveva deciso di invitare due candidati a sindaco per lavare i piedi – insieme a loro – a persone del popolo, giovani, disabili, emarginati. Il messaggio, a occhio, suona già diverso, assai meno stonato. Molto più vicino a quello di Papa Francesco che, nelle stesse ore aveva scelto di lavare i piedi ai disabili di una casa di cura romana, prendendosela nella sua predica contro i sacerdoti vanesi e i politici corrotti. Mentre, a guardare le immagini di Gaeta, pare che il messaggio evangelico si metta al servizio del peggiore stereotipo: la Chiesa che si inginocchia di fronte al potere terreno, il parroco che lava i piedi ai politici. Un cortocircuito in piena regola. A meno di non voler intendere che al giorno d’oggi non c’è, agli occhi degli umori popolari, categoria più malfamata e reietta dei politici – altroché immigrati e disabili e carcerati, anche se con questi ultimi potrebbero a volte coincidere – e dunque inginocchiarsi di fronte a loro è davvero un messaggio di puro altruismo evangelico. Sarà, ma a guardare bene le foto è difficile capire chi si inginocchia di fronte a chi, chi è il servo e chi è il padrone, o se tutti assomigliano a padroni alla disperata ricerca di un briciolo di autorevolezza.