Città troppo eterna

È una stagione appiccicosa, fatta di nuvole di polvere e funerali da vivi. Nella città stremata nessuno è più disposto ad accettare il ruolo che il tempo vorrebbe cucirgli addosso. Per i vecchi leoni gli addii sono lunghissimi. Aprono le porte di casa, chiamano la processione degli ospiti e dei ricordi, dei discepoli e degli imitatori, lentamente sfioriscono elargendo benedizioni e testamenti incompleti, non lasciando eredi ma solo cultori della materia. Dirigere il proprio requiem è un privilegio per chi lo fa, e forse una dannazione per chi resta. “Bisogna abbandonare le cose che ci abbandonano” scriveva il gesuita Baltasar Gracian, citato pure sulla Gazzetta dello sport. Non vogliono uscire dal campo, non sanno immaginarsi altro e altrove, chiamano a loro le genuflessioni e poi all’improvviso buttano dentro un altro gol, lasciando ai posteri la gioia avvelenata del sentirsi indispensabili. Come se l’importante alla fine non fosse segnare ma festeggiare. I padri ridiventano figli, chiedono carezze e rassicurazioni. I vecchi non vedono eredi, gli eredi non vedono speranze. I candidati alla successione non vogliono nessuna corona, pure alle elezioni sembra che nessuno voglia vincere.

Diventare vecchi dev’essere come girare per questa vecchia capitale dove tutto sembra commissariato, cercando invano l’inizio del giorno in cui tutte le cose hanno cominciato a rompersi e funzionare male, eppure nonostante ciò continuando a sopravvivere, immensa archeologia di pietre, di persone, di sentimenti. Ma che fai, stai aspettando ancora il tramonto? Rispedisci con tanti saluti al mittente l’idea che si debba smettere quando tutti s’aspettano che tu lo faccia. Amiamo le nostre rovine, sui pennoni le bandiere si consumano perché nessuno le ammaina più e da sole non si ammainano mai.


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