Bangkok

Bangkok mi assale. Sarà lo shock culturale, il caldo da sauna, il jet-lag, l’Asia (devi andarci prima o poi, dicono tutti), sarà che mi avevano detto che sembrava Napoli, e i tassisti se vuoi andare in un posto ti chiedono cosa ci vai a fare e poi dove ti portano lo vogliono decidere loro, saranno i gas di scarico, il traffico pestilenziale, il cibo che frigge e marcisce, tutti quelli che passano accanto, e sono tanti, che hanno un’aria tra il furbo e l’insolente, sarà quello che vuoi (puoi fare davvero quello che vuoi qui, anche questo ti avevano detto) ma io resto interdetto. Subito capisco che posso solo rassegnarmi.

A Bangkok la maggioranza dei turisti si trattiene giusto il tempo di guardarsi un po’ attorno. La visita ai templi più famosi, un giro nei mercati galleggianti, un’ora rilassante di massaggio, poi via verso altre destinazioni, un’isola, una spiaggia, una foresta tropicale. Ci sono poi quelli che restano, che forse non se ne vorrebbe nemmeno andare. Alcuni sono seduti in un bar, uomini soli e attempati, hanno un’aria esausta, sorseggiano una birra in attesa che arrivi la sera. Qui è facile trovare avventure, ma anche dentisti o chirurghi plastici a buon mercato, dicono. Lasciarsi morire, oppure rinascere.

Di mattina visito il Wat Po, giro tra i templi e le statue e le pagode colorate e i buddha seduti o sdraiati o reclinati, meditabondi o benedicenti, faccio tutte le foto che voglio fare, ma con un senso di spaesamento sempre più forte. Percorro perfino il corridoio delle cento monetine, gettandole una ad una nei cestini, seguendo un rito disciplinato e sempre chiedendomi perché. Tutta colpa della mia ignoranza. Wat Po è uno spettacolo, ma cosa significa? Mi siedo come tutti in un bar a sfogliare guide sul buddhismo, come quei turisti cinesi che vanno a sedersi nei giardini dietro Notre Dame cercando di raccapezzarsi con scarso entusiasmo fra le assurdità della teologia cattolica. Mentre cerco di guadagnare l’uscita, o l’entrata, sono braccato da piazzisti  che non hanno pietà di me, forse a ragione, sventolando pezzetti di carta che sembrano vecchi biglietti di lotteria, urlandoti “vuoi tempio, vuoi motoscafo, vuoi bella ragazza?”.

Lampi continui, pomeriggi d’agosto schiacciati dalle nubi. Fra il buio e i monsoni improvvisi Bangkok agonizza, anche io seduto su un tuk tuk dentro l’ingorgo più irrisolvibile della mia vita, con i tubi di scappamento all’altezza della bocca. Diluvi – fon tok in thai – e tempeste che per qualche momento rompono il caldo. Tangenziali prenestine all’ennesima potenza e centri commerciali american-dubaiani. Le torri in costruzione sembrano già le rovine di una città antica, assediate dai baracchini del cibo su ogni marciapiede, dove qualsiasi materiale organico è passibile di essere infilzato su bastoncini di bambù. I pali della luce, con centinaia di cavi che penzolano uno addosso all’altro, rendono per un attimo chiara come una fotografia l’abusata espressione di “giungla urbana”.

Posso solo rassegnarmi, perché non ho alcuna possibilità: potrei fermarmi tre giorni, tre anni o una vita, nulla potrà cancellare questo senso di reciproca e immutabile estraneità. Farang, straniero, così si è condannati a restare. Un uomo occidentale nell’oriente asiatico non riuscirà mai a cancellare la propria estraneità, per quanto cerchi di insediarsi ed adattarsi. Forse per questo, come scrive lo scrittore americano Lawrence Osborne, per fermarsi qui bisogna smarrirsi, sapersi lasciar andare alla deriva. “A Bangkok si arriva quando si sente che nessuno ci amerà più, quando si getta la spugna, e a pensarci bene la città è solo questo, il protocollo di una caduta”. Nel suo libro su Bangkok, un romanzo che poi non lo è diventato, mi fa impazzire il ritratto che fa del suo vicino di stanza in questo albergo di solitari espatriati, un tale Mc Ginnis: “Era un uomo senza passato, uno di quei personaggi di Simenon che un bel giorno salgono su un treno e vanno a far secco uno sconosciuto in una città lontana».

Dentro il taxi che va nel quartiere di Patpong il guidatore vuole sapere tutto delle mie preferenze sessuali, è convinto di farmi un piacere e risparmiarmi tempo. Che per i thailandesi il sesso sia solo un prurito da eliminare, non un dramma religioso passibile di espiazione, l’avevo sentito ripetere non so quante volte. Il richiamo di Bangkok, per molti occidentali, è anche questo. O forse è anche ciò che fa paura: quando puoi fare tutto davvero allora le ossessioni, le nevrosi, le fantasie svaniscono. Le ragazze o i ragazzi ti guardano, ti sfiorano, ti chiedono, ti fermano. Se dico no, sono qui solo per fare un giro, mi guardano con la faccia di chi ha già capito, e sa che l’ego occidentale si scioglie facilmente, come neve sporca. Eppure se i soldi si possono usare così, alla luce del sole, il sesso diventa al tempo stesso più umano e più disumano.

Al crepuscolo, dopo un tramonto rapidissimo, le luci si moltiplicano. Come i corpi sfiorati nella folla, come gli odori delle strade. Da narici invisibili escono fuori sbuffi di basilico rancido e marijuana fredda, nubi di vapore speziato che copre tutto, e sa di uova, calamari, polpette di bufalo, grilli arrosto. Turisti e thailandesi si mescolano. Chissà a chi appartiene Bangkok.


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