Una Cambogia

Attendere il monsone a bordo piscina dell’albergo, assaporando le nuvole sempre più scure, come i vecchi inviati nell’Indocina. Ma questa aria cupa, immobile, mi intimorisce. C’è un’atmosfera di attesa, il cielo che vira verso il grigio, il violaceo, infine quasi il nero. Un crepuscolo fuori orario. Il soffio del vento che scuote le palme. Il gracidare delle rane come mille sirene. I passi che affrettano, da fuori rumore di pedali pigiati sull’acceleratore. Poi qualche prima goccia di avvertimento, grossa e pesante. La pioggia che piano piano sempre più forte si mette a tamburellare, sulle foglie, sui tetti, sugli ombrelloni, sull’acqua di cloro della piscina, sui libri rimasti sopra il tavolo. La sento crepitare sempre di più, tutto lì fuori potrebbe già essere diventato fango o torrente. Il diluvio sembra universale ma è provvisorio. Dopo un’ora c’è già il sole, la piscina ha ripreso il suo azzurro cielo.

Sull’acqua galleggiano case, negozi, templi, officine, distributori di benzina, supermarket, bar, parrucchieri, ristoranti. Ci sono catapecchie ma anche appartamenti arredati con mobili costosi. C’è tutto, solo che ogni costruzione galleggia. È quasi incredibile pensare che esista ancora un posto così: un paese che se il fiume si secca, semplicemente si può spostare. Tutto insieme. Un luogo che sembra uscito da una fiaba, nel quale per andare da una casa all’altra, gli abitanti salgono sulle barche oppure si tuffano in acqua. Una fiaba in cui però ci guarderemmo bene dall’entrare, noi che facciamo foto e salutiamo da lontano, ma ci spaventiamo sia per le zanzare che per la povertà.

Anche i campi di riso, mentre sta per cominciare la stagione delle piogge, sembrano un mare verde, mosso dalle onde e dal vento. Campi e campi a perdita d’occhio dall’alto della montagna di Phnom Sampov, vicino Battambang, dove le scimmie fanno la guardia a un tempio e i pipistrelli aspettano il tramonto per uscire dalla montagna in una scia infinita. Serenità di risaie e asiatiche mondine interrotta però dalla guida, ricordandoci degli anni dei khmer rossi, quando le acque si ritiravano dopo le piogge e in mezzo al riso emergeva una distesa di resti umani.

Al villaggio di Chiro, provincia di Kampong Cham, Sophal Pot spiega che un mese come recptionist in un albergo per turisti può fruttare uno stipendio di 300 dollari al mese, poco meno di quello che una famiglia di agricoltori nelle zone rurali della Cambogia può guadagnare in un anno. Per un anno di scuola studiando inglese, lingua khmer, matematica, musica e computer servono 164 dollari. Dormiamo in una palafitta di fronte alla scuola, che sta pure su palafitte per difendersi dalle piogge e dalle alluvioni imminenti, mangiamo con una famiglia del villaggio, riso fritto a colazione e amok di pesce appena pescato, camminiamo su terra e polvere, stiamo attentissimi a non lasciarsi sfuggire nemmeno un pensiero comodo sulla povertà così dignitosa, pensiamo con ottimismo che i ragazzi con le maglie del calciatori di mondi lontani si faranno anche se hanno le spalle strette, come diceva il poeta, e intanto ci obbligano a tirare calci di rigore sotto il sole umido per ore e ore, con qualcuno devono pur giocare. Chissà quanti ne vedranno di benefattori tristi che non hanno vinto mai.

Era un ex liceo francese moderno, anni Cinquanta, col balconate e finestroni, dove si sarà studiato – chissà – Chateubriand o Pascal. Filo spinato ritorto sui muri e sui cancelli. Attorno palazzi che furono residenziali, e ancora oggi dalle finestre della vecchia scuola si possono vedere a pochi metri le finestre di dirimpettai e vicini. Ma già entrando dal cortile nelle prime classi ecco la crudeltà che anche con mezzi scarsissimi aguzza l’ingegno per raggiungere il suo scopo: gli attrezzi ginnici da palestra sistemati per appendere i prigionieri con la testa all’ingiù, le brandine arrugginite con bastoni di metallo e vecchie batteria per dare la scossa ai prigionieri, le tenaglie per strappare le unghie, i barattoli per applicare gli scorpioni. Le classi sono divise con muretti di mattoni in cellette di meno di un metro per due, da cui non si usciva per mesi (“Quante vittime nell’edificio?, “Ventimila, o forse più”, “Quante in tutto il paese?”, “Più di un milione, almeno il 20% della popolazione”). Come un regolamento scolastico e condominiale, al centro del cortile ecco appese le regole del luogo. Ad esempio la numero 6: “Mentre vieni bastonato o colpito dalla scossa non devi assolutamente gridare”. L’ex liceo Tuol Sleng fu il centro di detenzione e tortura a Phnom Penh, la capitale, per le vittime del regime di Pol Pot e dei khmer rossi, massacrate tra il 1975 e il 1979. Massacrate perlopiù a bastonate, evacuando le città con migrazioni e lavori forzati nella campagne, abolendo le professioni e le scuole, gli ospedali, le banche, il commercio, le biblioteche, la religione, i soldi.

A Choeung Ek, un ex-frutteto quindici chilometri a sud di Phnom Penh, dove i prigionieri di Tuol Sleng venivano, infine, giustiziati, un enorme stupa buddhista, per commemorare le vittime, si erge davanti a me. Dentro, racchiusi in teche di vetro messe una sopra l’altra, ci sono circa cinquemila teschi che, a guardare verso l’alto, sembrano non finire mai. Di fianco brandelli di vestiti mezzi interrati fanno parte del paesaggio. Più avanti, delle ossa umane paiono rami secchi che spuntano dal suolo. Questi enormi campi di sterminio, questi genocidi non suscitarono nel nostro emisfero quell’indignazione che ha bisogno sempre di grande pubblicità, nemici adatti alle nostre paure, cortei e concerti, vittime fotogeniche, sangue in diretta, fragore di bombe e pallottole all’ora di cena, film kolossal di grande commozione. Adesso i cambogiani li fanno vedere volentieri questi posti delle stragi, con sguardi che sembrano non tradire né rimprovero né vendetta, tuttavia avvisando i viaggiatori con opportuni cartelli che non è opportuno scattare selfie o catturare Pokemon col telefonino nell’area dei campi di sterminio. E lasciandoci scrivere tutti i “mai più” che vogliamo sui quaderni delle visite.

Forse la Cambogia è un paese di rimpianti, come il re Sihamoni quando si aggira solitario e senza poteri nel suo palazzo reale sul Mekong e ripensa agli anni in cui faceva felicemente il ballerino a Parigi. Nella capitale Phnom Penh tirano su torri e grattacieli sulle cui terrazze potranno forse un giorno sorgere favolosi sky bar come a Bangkok o nelle altre metropoli asiatiche, location perfette dopo il tramonto, appena si allargano le nuvole del monsone, per ammirare l’orizzonte del progresso e stendere un velo di nuvole e oblio su tutto ciò che brulica e sopravvive lì sotto, nelle strade.


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