Il fasciocomunista

Passando da piazza del Popolo a Latina, dove c’è quella specie di fontana con un’enorme palla al centro, penserò per sempre al camion tutto intero sepolto lì sotto, in un giorno di pioggia nel ventennio nero. Fervevano i lavori, la mattina dopo doveva essere tutto finito. Il camion era carico di pietrame. Prima affondò da un parte, con la ruota motrice. Poi, a forza di farlo girare per tirarlo fuori, affondò pure l’altra. Provarono a tirarlo su prima con le braccia, poi con le macchine, ma niente: la piccola voragine di fango lo risucchiava. Siccome non c’era tempo da perdere decisero di scavare un po’ intorno e seppellirlo lì. Sopra ci misero altro pietrame, e l’asfalto. Il camion sta ancora là sotto, insieme alla pietre e al gattino dell’autista, che non era voluto scendere, spaventato dal rombo dei motori e della gente che stava intorno. Miagolava, finché non è stato ricoperto.

I gatti. Servivano pure quelli, e li portarono da Roma. Riempirono un paio di camion con le bestiole prese al laccio tra il Pantheon e i Fori, mentre le gattare capitoline strillavano e si facevano reggere, e li liberarono qui, dalle parti di uno di quei borghi rurali con nomi da trincea del ’15/’18: Borgo Grappa, Borgo Piave, Borgo Sabotino, Borgo Isonzo… Tutti popolati da uomini e donne arrivati sù dal Veneto, in fondo in maniera non troppo dissimile dai gatti, caricati sopra i treni e scaricati qua, di fronte a un podere.

Certe notti, dai campi attorno alla via Appia, poi, c’è ancora qualche vecchio colono che giura di sentirlo. Vroooom, vrooom, come un rombo di motore in avvicinamento. Di lato agli alberi di eucalyptus ancora superstiti, in tutti quei Borghi piantati in mezzo agli incroci stradali, vicino ai canali e alle piantagioni di kiwi, pare di sentirlo ingrossarsi man mano quel rumore, il ruggito di una moto in avvicinamento, una folata di vento improvvisa, la sagoma di una Guzzi 500. Nessuno l’ha mai vista, in verità. Ma certi vecchi, gente che parla in romanesco e ricorda in veneto, ne sono sicuri: quello, è il fantasma del Duce.  

Antonio Pennacchi queste storie le raccontava già alle fine degli anni Novanta, in uno dei suoi primi libri, quando faceva ancora i comizi in piedi su una sedia sotto i portici di quella piazza, con Latina Oggi sottobraccio, in bocca una sigaretta e una lista lunga così di partiti, sindacati e parrocchie che prima non lo avevano inquadrato e poi lo avevano espulso, sulla fronte il sudore che era lo stesso come operaio alla Fulgorcavi e come scrittore da 55 rifiuti per 33 editori, e quella parola che poi si sarebbe inventato, “fasciocomunista”, etichetta buona per lui e soprattutto per “quelli che non capiscono un cazzo” e senza metterle non saprebbero stare, che lo portò fino al premio più ambito, con la bottiglia di liquore, sciolto come tutto in un abbraccio e un vaffanculo, d’amore e di rabbia. C’è tutto il bene e tutto il male del mondo in ognuno di noi, scriveva, e la storia ci insegna a governarli. Grazie a lui avevo scoperto che quella provincia dietro casa forse era il west.

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