La ragazza dell’Ariston

Pubblicato sulla Gazzetta di Gaeta – Numero 3 – Donne (agosto 2021).
Foto di Flavia Fiengo.

L’ultima volta che sono stato al cinema è stata anche la prima dopo i lunghi mesi di chiusura per la pandemia, sono andato all’Ariston in piazza della Libertà a Gaeta a vedere Rifkin’s Festival di Woody Allen e mentre uscivo lasciandomi alle spalle i titoli di coda ho pensato che quello che avevo appena visto mi sembrava tutto irrimediabilmente un testamento: il film, Woody Allen, i vecchietti in sala, la sala stessa così enorme e semivuota. «Il nostro è un mondo fisico, fatto di oggetti, di cose, e le cose sono come le persone hanno bisogno di essere accudite, curate, toccate ogni giorno per restare vive» mi dice Rita Simeone mentre mi accompagna sulle assi del palcoscenico, tra queste mura che sono ancora le sue e della sua famiglia, dietro il telo bianco dove fin da piccolo ho visto proiettate le cose più fantastiche, più immateriali e talvolta più indimenticabili, i film. Come Mort Rifkin anche a te capita di immaginare la vita di tutti i giorni oppure costruirtene un’altra attraverso le scene dei film che hai visto, le lenzuola di Godard e le biciclette di Truffaut, le suore di Fellini e la partita a scacchi di Bergman? «Sai, in verità no perché io sono ancorata alla realtà delle cose, per me il cinema è la mia seconda casa, o forse la prima, fatta di queste mura costruite dagli operai della ditta di famiglia, di questo proiettore comprato appena tre anni fa, di questa scrivania che è la stessa di mio padre e dove io ancora oggi non riesco a sedermi sulla sua sedia ma sempre davanti, al posto dell’ospite».

Rita Simeone, erede della famiglia che nel 1954 fondò il cinema teatro Ariston, oggi rimasto l’unica sala cinematografica di Gaeta e l’unico teatro privato e operativo della provincia, ha bisogno di toccare i ricordi fisici, gli oggetti materiali e deperibili di una vita, come le cartelle piene di foto, documenti, ritagli di giornale che riempiono il suo ufficio, in cima alla scalinata che porta alla galleria. Ci sono ancora i preventivi e i progetti di quando tutto iniziò, nei primi anni cinquanta: la ditta del Commendator Rocco di Roma che si rallegra per l’iniziativa di aprire una sala cinematografica «che senz’altro aumenterà benessere e prestigio a codesta località» e propone le proprie poltrone «corazzate e resistenti per un pubblico giovane ed esuberante» a 2700 o 2400 lire cadauna; la Cinemeccanica di Milano che pubblicizza il suo «proiettore autoraffreddato» e il «lettore del suono con volano magnetico e compensatore idraulico»; la Chrysler Airtemp direttamente dagli Stati Uniti d’America che raccomanda i suoi compatti e flessibili apparecchi per l’aria condizionata su misura per i piccoli teatri. C’è la matrice dei biglietti staccati il 15 maggio 1954, primo giorno di apertura, per il film Pane, amore e fantasia con Vittorio De Sica e Gina Lollobrigida. C’è il ritaglio ingiallito del quotidiano Il Tempo che annuncia «l’inaugurazione a Gaeta di un modernissimo cinema, un’altra delle opere realizzate dagli instancabili fratelli Simeone». Ci sono le foto degli operai che montano il tetto che con un elaborato sistema meccanico si apriva tra il primo e il secondo tempo di ogni film, per far uscire il fumo delle sigarette degli spettatori e forse fargli vedere le stelle. «Quanto lavoro Luca, quanto lavoro» mi ripete mentre squaderna davanti a me i faldoni, gli album, le cartelline. «Forse le persone che vengono al cinema o che passano qui davanti non si rendono conto di quanto lavoro c’è dietro, di cosa significhi per un cinema restare spento, chiuso per mesi e mesi».

Per Pietro, Vittorio, Egeo, Domenico e Giuseppe il cinema era solo una delle attività. Ben altri erano i sogni concretissimi e materiali che i fratelli Simeone vendevano ai gaetani: le case, i palazzi, gli appartamenti che sorgevano come funghi negli anni della ricostruzione e del boom economico. «Insieme i fratelli erano una squadra fortissima, ognuno si occupava di quello per cui era portato, papà per esempio seguiva tutto il lato amministrativo. Quelli erano i tempi in cui le case si vendevano con una stretta di mano. Ancora tante persone quando mi incontrano esprimono la gratitudine per la solidità e la correttezza del loro lavoro, pensa che papà aveva un archivio gigantesco di tutti i lotti e i fabbricati e le persone quando dovevano chiedere un certificato invece di andare al Comune andavano da lui». Anche nel cinema tuo padre e i tuoi zii portarono un’idea imprenditoriale e forse un po’ spietata, nel giro di pochi anni si impossessarono di tutte le sale del paese, costruirono l’Ariston al posto del vecchio romantico Terrazzo degli Aranci dove i giovani dell’epoca andavano ad azzardare i primi balli, presero in gestione dai fratelli Galise il cinema e l’arena Roma, si comprarono il vecchio cinema Elena che si apriva al fondo di uno dei vicoli del Borgo come l’antro della sibilla per raderlo al suolo e farci un moderno multisala con centro commerciale, l’Europa Due. «Erano avanti, si informavano su quello che succedeva nelle città, avevano perfino fornitori in America. Allora fare cinema era un’attività molto redditizia, su tutti i volantini dei film in programmazione bisognava scrivere sempre che si consigliava di arrivare prima per trovare posto o per evitare la calca. Per rendere l’idea basti pensare che a livello nazionale alla fine degli anni cinquanta si vendevano 820 milioni di biglietti all’anno, adesso, prima del lockdown, stavamo sui 100 milioni». Altri tempi, altri mondi. «La cosa che più mi fa pensare è la quantità di cose che gli uomini e le donne di quella generazione sono riusciti a fare. Mio padre sovrapponeva completamente la vita e il lavoro, con una dedizione assoluta. Mia madre avrebbe potuto restare a casa ma ha sempre voluto mantenere la sua indipendenza con il lavoro. Era una bella ragazza coi capelli rossi che inforcava da sola la sua bicicletta e andava a insegnare nelle campagne e nei paesi dopo la guerra. Ecco, io rispetto a quello che hanno fatto mi sento proprio piccola piccola, una cosa che sembra anche un po’ miracolosa ed eroica, come avere tenuto aperto questo luogo, sparisce rispetto a quello che hanno fatto loro».

Eri senza dubbio una ragazza privilegiata, figlia della più importante e benestante famiglia di costruttori di Gaeta. Come lo vivevi? «Non bene, io ho sempre sofferto di questo vivere in provincia, in una piccola città in cui venivamo sempre riconosciuti come i figli di quello o i figli di questo, sia per trattarci bene che per sparlare». Volevi scappare via? «Ero felice quando sono diventata un’anonima studentessa di Lettere alla Sapienza. Erano anni difficili, il ‘77, il movimento studentesco, la lotta armata, era forte l’impegno politico ma era enorme pure l’amore per la cultura, c’era il mondo dei teatri off, il teatro Piramide con Mario Martone, i primi film di Nanni Moretti, il Folkstudio, sono stati anni bellissimi e disperati, c’era un’aria gioiosa, una voglia di sperimentare tutto ma c’è stato anche molto dolore, tanti amici si sono persi per strade diverse e a volte senza ritorno». Le strade della vita, nel tuo caso, ti hanno riportato nella provincia da cui non vedevi l’ora di andare via. «Avevo bisogno di concretezza, gli anni romani mi avevano succhiato tante, troppe energie. Così, buttando un po’ via la mia laurea sono finita a lavorare in una delle attività di famiglia, al centro commerciale». Ci sono passato pochi giorni fa lì in via Montegrappa, oggi quel vecchio centro commerciale sembra una carcassa abbandonata tra i palazzi nuovi di via Europa e le case vecchie del Borgo, un posto triste, venuto male, che ancora odora di speculazione. «In realtà quello era un progetto all’avanguardia, c’era la piazzetta, il ristorante, il cinema che era già un piccolo multisala, il supermercato al piano di sotto, gli spazi per i negozi. L’Europa Due durò pochissimi anni, aprì nel 1975 e nel 1981 era già chiuso. Arrivammo troppo presto, negli anni novanta di progetti simili ne nacquero a bizzeffe».

Invece proprio il posto apparentemente più demodé, l’enorme sala dell’Ariston con i suoi marmi e la sua moquette, così prezioso e così complicato, è il luogo che è durato di più, praticamente integro dopo quasi settant’anni.  «Ho cominciato tardi a lavorare qui, intorno al 1993, con mia sorella Valeria davamo una mano a papà che si interessava più che altro della parte amministrativa ma anche lui era innamorato di questo posto». Non avete mai pensato di trasformarlo in un multisala, com’è accaduto a molti vecchi cinema e teatri d’epoca? «Abbiamo valutato moltissime volte quell’idea, già nel 1994 mio zio Domenico fece degli studi sulla suddivisione degli spazi. Avremmo dovuto eliminare o ridurre l’attività teatrale. E poi avremmo perso questa sala bellissima, ho visto tante sale massacrate in quegli anni. Nell’ambiente cinematografaro romano ci presero per pazzi, una sala così grande, in provincia, col palcoscenico… invece questo alla fine ci ha salvato perché ci ha dato la possibilità di restare sul mercato e di lavorare su tanti fronti, dalle scuole alle compagnie teatrali, dai saggi di danza agli eventi». È in quegli anni che all’Ariston il lavoro diventa passione, le mura di famiglia smettono di essere una gabbia e diventano casa. «Con la mia amica Fabia avevamo fondato l’associazione Lanterna magica, guarda che belle rassegne facevamo, il mercoledì d’autore era diventato un appuntamento per tantissime persone, preparavamo insieme le schede dei film, facevamo i dolci per gli spettatori, io mi ero inventata questo gioco con i quiz a cui tutti partecipavano, facevamo le classifiche, chi arrivava primo vinceva il Morandini, il dizionario dei film! Ovviamente sceglievamo pellicole un po’ particolari, il cinema orientale, Kiarostami, oppure certi indipendenti americani che nessuno conosceva, la gente veniva senza manco chiederci che film facevamo. Certo, ogni tanto ce volevano mena’». Sembra un lavoro molto romantico. «Questo lavoro può farlo solo chi lo ama ma è molto meno romantico di quanto si creda, perché c’è un’azienda da portare avanti. Come diceva sempre papà, non dobbiamo mai perdere di vista che noi siamo imprenditori, che i conti devono tornare. Quando nel 2002 lui è morto sono diventata rappresentante legale e amministratore di questo posto, e un po’ di quella parte creativa è stata succhiata via». C’è stato un momento in cui ti sei resa conto che da spettatrice appassionata eri diventata un’esercente? «Mi viene in mente il cortometraggio di Nanni Moretti, Il giorno della prima, che raccontava tutte le paranoie dell’esercente, lui entrava e cominciava a bacchettare il personale su tutto, controllava gli incassi sul report di Cinetel, i dati delle altre sale, confrontava i film che piacevano a lui ma che incassavano pochissimo con quelli che invece detestava ma riempivano le sale. Poi interveniva su tutto, si affacciava da dentro la tenda e diceva: abbassa il volume di mezzo grado, metti a fuoco un po’ di più. La notte a casa si svegliava dicendo: oddio, avrò aggiornato la segreteria telefonica? E succedeva lo stesso a me!». Come funziona il cinema adesso, c’è ancora il proiezionista nascosto nello stanzino lassù o è stato tolto di mezzo, come l’omino che ogni notte cambiava a mano le lettere dei titoli dei film nell’insegna qui fuori? «Il digitale ha cambiato anche l’organizzazione interna, hai guadagnato una persona però hai un mare di problemi in più, ora i film ci arrivano su un hard disk o spesso da scaricare via satellite o via fibra, le case di produzione mandano le chiavi di decriptazione ma spesso sbagliano le password e i numeri dei server e allora bisogna rincorrerli, alla fine tocca mandare un corriere a recuperare a mano l’hard disk. L’omino dell’insegna invece l’ho tolto perché ogni notte che lo vedevo arrampicarsi sulla scala avevo paura per lui». È da quando ho messo piede per la prima volta all’Ariston, ed ero un bambino, che sento parlare della sua imminente chiusura, tutti a dire ci faranno un supermercato, oppure dei garage. «Tante volte ci hanno dato per spacciati, e in effetti noi le crisi le abbiamo cavalcate tutte: l’arrivo della televisione, poi le videocassette, l’home video, l’apertura del multisala a Formia, internet e lo streaming. Però il valore della condivisione, dello stare insieme alla fine ha sempre vinto, almeno fino a prima del Covid. Stavolta, per la prima volta, e sono sincera, stiamo combattendo una battaglia che non so se riusciremo ad affrontare».

Mi raccomando però, mi dice Rita, non voglio fare un’intervista cupa, pessimista, rassegnata, anche se il periodo è quello che è. Non avrebbe voluto nemmeno farla l’intervista, e le foto che le scatta Flavia Fiengo nella sala del suo cinema e teatro, fedele all’imperativo, forse più fuori moda dei vecchi cinema, della discrezione. «Lathe biosas, ripeteva sempre mio padre citando Epicuro, vivi nascostamente. Ho assorbito da lui questa voglia di riservatezza, non è necessario raccontarsi, alla fine uno si racconta con le cose che fa». Ripensa spesso ultimamente, mi dice, agli ultimi anni del padre. «Di tutte le imprese alla fine era rimasto solo questo cinema, dove lui ha lavorato fino all’ultimo anche se negli ultimi tempi c’era, da parte sua, una grande difficoltà a rapportarsi con situazioni nuove che cambiavano, con un mondo che andava da un’altra parte». Mi viene in mente il protagonista di un altro degli ultimi film di Woody Allen, Midnight in Paris, che sale su un’onirica auto d’epoca per sbucare ai tavoli di un caffè in cui sono seduti Hemingway, Dalì e Picasso. Ma poi incontra un’amante del pittore spagnolo che si mette ad esaltare i chioschi e i lampioni a gas della superata Belle Époque e dice: «Sarebbe stata perfetta per me!». Perché è sempre una lente un po’ opaca quella con cui guardiamo a un passato ideale, oppure a un presente che delude, attendendoci un ritorno della presunta età dell’oro. Si può solo ogni giorno aprire e chiudere le serrande, sperando che i titoli di coda scorreranno domani, oggi ancora no.