Il serpentone

Di Corviale si sente parlare come di un’oggetto siderale, mitologico. Un’astronave atterrata nel mezzo della campagna romana, ai confini estremi della città, carica di utopie andate a male. Un palazzo enorme che era già rovina al momento della sua inaugurazione. Lungo un chilometro, altro nove piani, popolato da 4500 abitanti, progettato da un’equipe di 23 architetti, costruito tra il 1975 e il 1982, mai completato. Dev’essere per questo motivo che la prima volta che mi sono avvicinato a Corviale, per curiosare non per altro, mi sono sentito un po’ colpevole. Mi pensavo un po’ come uno di quei giapponesi che allungano il percorso del tour organizzato e da San Pietro arrivano fin qui, per passare col pullman davanti al monstrum, al palazzo lungo un chilometro, al Serpentone, alla Navicella Spaziale, al Transatlantico, al Colosso. Un’attrattiva che riassume in sé lo spaesamento di non poter abbracciarlo con lo sguardo, il fascino kantianamente sublime della massa sterminata di cemento, e anche quella seduzione tutta contemporanea per l’estetica del fallimento.

Le leggende aleggiano come corvi, attorno Corviale: come quella che diceva che il Palazzone toglieva l’aria a Roma, impedendo con la sua mole il flusso rinfrancante del Ponentino; oppure l’altra che voleva che l’architetto che lo aveva ideato, Mario Fiorentino, si fosse suicidato alla vista di questo suo figlio frankesteiniano ormai senza speranza. E ovviamente da vent’ anni non è mai mancato chi ha pensato di fare tabula rasa, e abbatterlo Corviale. C’è stato chi ha condannato l’esperimento fin dalle premesse, perché è arrogante pensare di imporre una visione del mondo a chi non la vuole, e peggio ancora costruirla, e chi invece ha dato la colpa all’incompiutezza, perché è inutile progettare macchine grandiose e straordinarie e se poi le persone, la politica, la società le abbandonano prima che siano finite. C’è chi dice che il problema è un altro: quando qualcuno desidera “fare ordine” fatalmente aggiunge un nuovo danno al danno preesistente. E allora Corviale non avrebbe comunque mai funzionato, nemmeno con tutti i possibili servizi sociali e di quartiere. Come immaginare riunioni di condominio, pulizie delle scale, manutenzione degli apparati, assegnazione dei posti macchina? È stato come se cento anni fa i marziani avessero recapitato sulla terra i computer ma senza libretto di istruzione.

Gli abitanti parlano del serpentone come di un figlio cresciuto male, che si drogava, ma che ora si cerca di recuperare, e a cui comunque non si può che volere bene. Il deserto di strutture e servizi sta piano piano scomparendo, ecco c’è un centro anziani, una biblioteca, un centro di formazione professionale, un mercato di frutta e verdura a chilometri zero, comitati di varia natura, circoli, associazioni, compagnie teatrali, centri sportivi, eccetera. Si fa ordine, si rammenda, si mette un cancello, si pulisce un pezzo di un corridoio che pare non finire mai, si costruisce una nuova portineria di fronte a quella vecchia bruciata e sfondata, si racconta la storia di un posto, ci si immagina come comunità, si fa un gioco tra ragazzini per scommettere quale ascensore oggi funzionerà. Passo davanti a qualche scritta in cui si dice che qui regnano Sergio e Fra’ e davanti a un’altra che dice che no qui regna Yanez, sfilo per il quarto piano, quello che doveva essere pubblico, continuamente interrotto da cancelli e inferriate, provo a cacciare il muso in appartamenti che sembrano dei loft con un una selva tropicale dentro, mi affaccio dai ballatoi con lo sguardo che perpendicolarmente si infrange sul cemento a vista dei piani sottostanti, salgo al nono piano solo per ricordarmi cosa vuol dire avere le vertigini. Mi metto a osservare questo palazzo nel vuoto, che poi è la metafora di tutto, della vita, delle storie d’amore, delle rivoluzioni politiche: un grande progetto idealista iniziale, tante difficoltà di manutenzione, piccole improvvisazioni ogni giorno, la convivenza con i difetti e il tentativo di trasformarli. 


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