Abbiamo sempre troppe aspettative dagli assassini che conquistano notorietà, vorremmo sentire almeno una motivazione più profonda, un movente meno stupido, un alibi decente. E invece eccoli lì, uccidono solo per vedere l’effetto che fa. “Volevamo vedere l’effetto che fa”, frase buona per il titolo e pure per il commento del giorno dopo, ma la cronaca nera prende tutto, non fa distinzioni. L’effetto che fa tocca misurarlo sempre a chi resta. C’è chi ha fatto sexting con l’assassino, chi c’è stato a letto qualche volta, chi lo conosceva ma non troppo, chi si faceva mettere in lista per l’aperitivo, chi ci ha parlato soltanto su una chat, forse non era lui ma in fondo era lì come tutti per fare le stesse cose, accettare le stesse proposte indecenti, rispondere agli stessi sms che invitano in case sconosciute.
La cronaca nera non perdona, si rivolta contro chi tenta di utilizzarla per dimostrare le sue teorie. Il delitto è un carotaggio che scava sotto i piedi, e ci ributta indietro mucchi di periferia, terriccio del centro storico, fanghiglia di classi sociali benestanti oppure malvissute, tracce evidenti di sesso, e poi milioni di selfie, accoppiamenti poco giudiziosi, corpi attraenti e corpi respingenti. Delitto chiama delitto, mentre ci fa venire a galla l’invocazione della pena di morte, che non è vendetta ma uno scongiuro affidato alla burocrazia, per cicatrizzare fuori di noi una ferita che ci spaventa perché è dentro di noi, o forse – misteri dell’evoluzione della specie – è noi. Che cos’è un uomo capace di massacrare un essere umano senza odiarlo, senza sapere nemmeno chi è? Che cos’è un uomo, in fondo? Misuriamo su Facebook i nostri gradi di separazione, ci si interroga scoprendosi più vicini al carnefice che alla vittima. Raccontare i delitti fa commettere altri delitti. Fa venire la nausea questo scempio di bacheche, di morti e di assassini, aperte a tutti, saccheggiate dai cronisti e dai sociologi del giorno dopo, visitate dalla nostra insanabile curiosità. Abbiamo in comune vite gentrificate come quartieri semi-periferici di una grande città, a metà tra l’imborghesimento civile e lo spaccio di trasgressioni. Ma ogni desiderio è liquido, basta aprire un app sul telefono, contare i metri di distanza e poi le notifiche. Annusarsi, decodificarsi, scoprirsi umani.
Ogni storia è maledetta a suo modo, direbbe la più venerata delle inquisitrici televisive. Si cerca una causa scatenante, mentre milioni di persone ogni giorno fanno uso di droghe, si rifugiano nel sesso senza limiti e senza convenzioni, usano sonniferi e talvolta li mischiano con alcolici, fanno i conti con le loro famiglie disfunzionali e con i loro tormenti interiori. Ma solo qualcuno da questo pozzo tira fuori il male, o ci butta con violenza qualcun altro. Scriveremmo libri interi, non smetteremmo mai di leggere articoli su articoli, verbali su verbali, pur di non ammettere l’esistenza della malvagità, di guardarla emergere da persone a cui nonostante tutto potremmo assomigliare. Mamme, figli, fidanzati, mariti, mogli, amanti, amici, sconosciuti. Di fronte al precipizio siamo soli. Di fronte alle notizie siamo in compagnia. Poi scopri che comunque non fa nessun effetto.