Miss Bangla

La sfumatura perfetta del colore dei vestiti, dal rosso fuoco al giallo e viceversa, e dei sorrisi dal più disinvolto al più timido, gli spilloni con sopra scritto il numero a grandi caratteri rossi, la posa del braccio sinistro poggiato al fianco e del braccio destro piegato con la mano verso l’esterno, come nella mossa finale di un balletto di varietà, la scenografia da piccolo teatro di provincia. Si intravede il conduttore in giacca e cravatta, si notano immancabili gli schermi dei telefoni cellulari e gli obiettivi di un paio di macchine fotografiche più professionali. La scena ci riporta indietro a quella cosa che a noi sembra un po’ passata di moda, molto patetica, forse sessista: i concorsi di bellezza. Da miss pianerottolo a miss universo non c’è stato spazio fisico e geografico che l’uomo non abbia simbolicamente occupato lasciando che fossero delle donne a gareggiare per uno scettro e una corona il più delle volte di ingannevole cartapesta. E tuttavia questa scena ci si presenta davanti agli occhi in una sera tiepida di primavera, quando attratti da voci e festoni scendiamo nei sotterranei di un teatro parrocchiale nel quartiere romano del Pigneto. Il teatro è affollatissimo, famiglie intere per assistere a questo spettacolo che è la finalissima di una miss forse bangla, di sicuro già italiana, pure sponsorizzata da eminente compagnia telefonica che pubblicizza le tariffe speciali per chi voglia chiamare il proprio paese di origine ormai lontano. Forse, per le ragazze sul palco, addirittura mai visto. Sono i nostri negozianti, le donne e gli uomini che incontriamo sul tram, i bambini che non distinguiamo all’uscita della scuola del quartiere, le signore che vengono ad aiutarci nella nostre case. Tutte e tutti loro lottano per conquistarsi il loro posto al mondo, in un paese che non sempre sa come accoglierli, e qualcuno ci prova pure piantando uno scettro e una corona di cartapesta su un palcoscenico.


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