Iconoclastia Carrà

Prendere la metropolitana, affrontare una città afosa, sudata, attraversare le distese d’asfalto della Tuscolana, entrare dentro una Cinecittà deserta, avanzare verso lo studio uno circondato da gatti solitari, infine avanzare nel buio, nella penombra, come nella scatola nera di una mecca catodica, infine eccola la sfinge bionda ed è la prima cosa che noto: manichini neri appesi per aria, sdraiati, acquattati, rivestiti di oro, di argento, di seta, di pailettes, in posa da Sfinge, appunto, con sopra solo una parrucca bionda, quel caschetto che di colpo mi appare così egizio. Forse aveva ragione Roberto D’Agostino quando diceva che che Raffaella Carrà è stata dichiarata sito archeologico: “Si può entrare solo con piccone, casco e guida”.

Anche se nessuno si è mai fatto male avvicinandosi a lei, pure se sguarnito di protezioni, com’ero io ancora con gli occhi sgranati e la bocca aperta da bambino davanti al televisore, esposto alla radiazioni di un prisma di luce che oggi, nell’era dei troppi schermi fin dentro le tasche e della mancanza di illusioni, sembra impenetrabile, snodabile e rigido in un modo irreale, un fascio di fermezza e determinazione dietro i lustrini che però non ho mai assorbito, impegnato solo a captare la nuvola giocosa e lieve della magia. In quante case Raffaella ha cantato e ballato, in quanti salotti e tinelli e camerette, come cantava Tiziano Ferro. Un’energia di una stella lontana nella memoria, ancora fugacemente presente, ricordo di giorni e serate in cui il varietà pareva nato per tenere in piedi le persone e oggi non c’è più perché tutto quello che poteva stupirci oggi non ci stupisce più e tutto quello che poteva crollare in fondo è già crollato anche se non sempre abbiamo fatto in tempo a spostarci un po’ più in là. Qui nel buio rotto dal biondo e dai lamé mi chiedo se c’è un’icona da venerare o un’iconoclastia per cui esserle grato.


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