Rimini felliniana

Quando la foschia arriva, salendo dal mare, inghiotte tutto. Gli scogli, il molo, il porto, la statua della sposa del mare, le cabine chiuse degli stabilimenti, le finestre del Grane Hotel e, ancora più sù, la città reale, le strade e le case e i negozi di chi vive ogni giorno in un luogo che è sempre fuori stagione, tranne per una stagione sola. Sparito tutto, resta “questo grande respiro, questo vuoto aperto del mare” come scriveva Federico Fellini, e le sue parole sono diventate neon di luminarie natalizie, appese nella strada centrale della città vecchia, accanto al cinema Fulgor che ora sfoggia poltrone comodissime e arredi colossali. I paesi di mare sono la cosa più vicina nel paesaggio reale a un set cinematografico, dove tutto riposa accatastato nell’attesa di un ciak, di una scena affollata di villeggianti e comparse che durerà poco nelle riprese ma forse per sempre nella memoria un po’ inventata di chi c’era e di chi no. Sulla terrazza del Grand Hotel ci saranno ancora quei ragazzi che ballano abbracciando la nebbia?

Ogni paesaggio così oggi ci sembra banalmente felliniano, basta un clown triste, un’alba al mare dopo una notte da ubriachi, un donnone malandato, una musica malinconica. Pure le persone allegre e tristi e consumate sedute sulle panchine del molo in questa sterminata domenica, davanti a un incongruo striscione giallo con la scritta “we love peace” a coprire dei lavori forse in corso, ci sembrano facce felliniane, visi da stampare e mettere in un faldone pronto all’uso, prima di partire per la capitale come se si andasse in un altro paese. Si è fuori stagione e la grande spiaggia di sabbia è vuota. Si sente “il rumore del mare, da cui provengono i mostri e i fantasmi”. Ma guardando laggiù nessuno immagina un Rex all’orizzonte, al massimo un bastimento carico di migranti.


Pubblicato il

da