Mascherine dimenticate

Ogni tanto quando esco di casa ancora mi dimentico della mascherina. Mi ricordo del portafogli, del telefono, delle chiavi, pure dei fazzoletti, poso la mano sulle tasche come faccio da sempre per controllare che ogni cosa sia al suo posto, poi scendo due piani, intravedo la luce della strada che sta lì fuori, questa luce ogni giorno più accecante e più estranea ai nostri mali, all’improvviso mi torna in mente: la mascherina! Chissà – penso mentre risalgo di fretta le scale imprecando – se arriverà un giorno in cui la lanceremo al vento, o perlomeno negli appositi contenitori della differenziata, allora quel giorno sarà una grande festa della liberazione, carica di abbracci agli sconosciuti, facce scoperte in un impeto di gioia, il nostro volto finalmente nudo, occhi naso bocca, per le folate di vento e di polline, per abbracciare una nuova realtà, oppure arriverà quel giorno e sarà una colossale giornata della rabbia, ogni maschera sarà gettata nel fuoco dello scontento e della vendetta sul quale in tanti soffieranno, le nostre facce libere e sformate dalla vendetta e dalla rivolta, esposte alle particelle di anidride carbonica e nevrotica, per rifiutare la realtà.

Già oggi, uscendo di casa, chi si ricorda che anno è, che giorno è, che fase è: saremo già nella tre, oppure ancora nella due e mezzo, c’è chi ha deciso di restare nella uno per sempre e chi si sente già nella quattro, c’è pure chi si sente immune e chi comincia a pensare che non sia successo nulla. Siamo già noi il mondo dopo la fine del mondo? Nessun presidente è uscito in televisione almeno per dirci bravi, missione compiuta. Pure gli scienziati e i dottori hanno cominciato a cercare il consenso dei pazienti invece che la loro cura. Abituati a stare col dito puntato verso chi sbaglia, dicendoci con aria compiaciuta “non ce la faremo mai” ora quasi nessuno è disposto ad ammettere che forse le cose andranno meglio, che la malattia superata potrebbe diventare cicatrice e non ricaduta.

Le cose non finiscono, non di colpo perlomeno, in maniera netta e chiara quasi mai, quasi sempre si dimenticano. Anche con le grandi epidemie, ci dicono ora, funziona così: può accadere che la fine non arrivi perché il virus è scomparso, ma perché la popolazione si è stancata di vivere nel panico e ha imparato a convivere con la malattia, a fare i conti con il rischio, a negoziare giorno per giorno il punto in cui spingersi. L’istinto prevale, in fondo siamo sempre gli stessi da secoli, nonostante le scuole che abbiamo frequentato, i telefoni che teniamo in tasca, i vestiti firmati che indossiamo, le medicine che ci hanno salvato la pelle. Un passo indietro, due avanti. Un abbraccio sfiorato, una mano lasciata andare. Mangiare con gli amici, prendere un treno, perdersi nella folla, sedersi in un cinema. Arriverà il momento in cui staremo per scambiarci un bacio sulla guancia e non ci fermeremo, arriverà senza accorgercene quell’attimo sospeso e sarà scacciato via con un ultimo movimento, con un sorriso che si potrà vedere e non si dovrà più per forza indovinare da sotto la stoffa. Non saranno più distratti i nostri baci, anche se uscendo di casa dimenticheremo sempre qualcosa, a cominciare da tutti quei buoni propositi che avevamo fatto.


Pubblicato

da