Io, io, io, io (& Berlusconi)

È morto Silvio Berlusconi e io forse oggi sono invecchiato di colpo. Ho voglio di fare quello che avrei fatto quindici o vent’anni fa, riaprire il mio blog, scrivere un post lungo, tendenzialmente compiaciuto, completamente egoriferito, come un omaggio al vecchio me stesso e all’eterno che non muore. “Il cliente, il pubblico, è un bambino di undici anni, neppure tanto intelligente” pare abbia detto una volta, in una convention di pubblicitari e televisivi. Io all’età di undici anni ero un berlusconiano perfetto. Chiesi a mio padre la spilletta di Forza Italia, la ebbi. Guardavo incantato i cieli azzurrini riverberati dal televisore in cucina, il verde, il bianco e il rosso che si univano in un simbolo a forma di bandiera e nella scritta Forza Italia, l’inno con le parole in sovraimpressione che si coloravano man mano come nel karaoke – forza alziamoci, il futuro è aperto entriamoci, e le tue mani unite alle mie – mentre scorrevano le città italiane viste dall’alto. Milano era lontanissima ma Canale 5 era accesa a tutte le ore a casa della nonna. Le facce pallide e tristi dei vecchi politici stavano nei telegiornali e nelle vignette di Forattini. A tavola i grandi ne parlavano malissimo. Prima di allora non ho memoria di niente, o mi sembra di non averla, che è lo stesso. Ma forse sì, una domenica di luglio del 1992, ero con mia madre a messa, all’aperto nel giardino della parrocchia, le sette di sera, il coro delle ragazze che canta Tu sei la mia vita altro io non ho, dalla strada il rumore dei villeggianti che tornano dal mare in ciabatte, durante l’omelia il giovane parroco, ex missionario in Bangladesh, che ci invita a pregare per una notizia appena arrivata: la mafia aveva appena ucciso il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta, due mesi dopo la bomba che aveva fatto saltare in aria un altro giudice, Giovanni Falcone. Falcone, Borsellino, Borsellino, Falcone, ce li avrebbero fatti ripetere a scuola quei nomi, su cartelloni disegnati con il pennarello, insieme alle bandiere dell’Europa, blu con le dodici stelle in cerchio, agli alberi che avremmo dovuto piantare per la festa dell’albero, alla cartina dell’Italia che, ci aveva detto una volta la maestra, qualcuno vorrebbe dividere in tre e noi non dobbiamo permetterlo, vero bambini?

Quattro anni più tardi Berlusconi arriva nel paese vicino, dove la maggior parte delle persone continua a votare un partito con un nome un po’ diverso dal vecchio ma sempre con lo stesso scudo crociato nel simbolo. Questo partito organizza una festa e Berlusconi è tra gli invitati. Chiedo ai miei di portarmici e di malavoglia acconsentono. Berlusconi passa e si ferma esattamente davanti a me, per salutare. Da vicino, tutto quello che mi colpisce di lui è un fortissimo odore di acqua di colonia e borotalco, come quello di una mia vecchia zia. Nella primavera del 2001, due mesi prima degli esami di maturità, in gita a Roma con i compagni di classe troviamo la stazione Termini tappezzata di cartelloni con la sua faccia liscia, soffusa, sorridente. Sul giornalino di classe, quattro fogli A4 appesi con lo scotch accanto alla lavagna, viene stampato un sondaggio realizzato tra i nostri professori: 4 votano per Berlusconi, 3 per Rutelli, 1 per Bertinotti, 1 (l’insegnate di religione) si dichiara indecisa. Il lunedì mattina la professoressa di italiano offre il cappuccino a noi che abbiamo votato il centrosinistra. Un altro professore, berlusconiano patito, sempre elegante e in giacca e cravatta, che la metà di noi prendeva in giro perché un po’ effeminato, entra in classe e ci dice: “Chiunque vinca la nostra vita non cambia, anche perché siamo ai livelli più bassi della società”.

Poi, passavano gli anni. Qualcosa era cambiato. Molte, moltissime cose, forse troppe, erano rimaste le stesse. Avevo avuto il tempo di dimenticare abiti indossati, oggetti, persone, giornate che per qualche oscura ragione mi erano sembrate fondamentali, prime e ultime volte. Compravo ogni mattina La Repubblica e mi sentivo dalla parte giusta. Mi iscrivevo, come tanti, a Scienze della comunicazione a Roma. Ascoltavo, dentro cinema che ora non esistono più, le lezioni di Alberto Abruzzese che faceva l’elogio del tempo nuovo e parlava di corpi elettronici. Teorie e tecniche della comunicazione di massa, critica ai media, antropologia culturale. Sembrava che la virtualità potesse renderci tutti liberi, forse felici, a un certo punto. Non mi perdevo un evento sul G8 di Genova, al quale però non ero stato. Conoscevo tutte le manifestazioni, i girotondi, i sit-in, gli appelli, i no-Berlusconi day. Ero francamente insopportabile. Leggevo la società dello spettacolo di Debord. Scrivevo una tesi per la laurea cosiddetta triennale sulle televisioni di strada, che se dovessi spiegarle oggi direi che erano come dei piccoli canali YouTube però fatti in casa, con un’antenna e un trasmettitore tecnicamente illegali, che al massimo si vedevano sui televisori del quartiere o del piccolo paese di provincia, e tuttavia fieri di essere i piccoli Davide in lotta contro Golia, e Golia era ovviamente sempre lui. Per l’altra tesi di laurea, quella cosiddetta specialistica, mi ero messo in testa di farla su Milano Due. Azzardo un collegamento di sociologia urbana tra Milano Due, Littoria e Celebration, una città pianificata e realizzata in Florida da Walt Disney. Passo una settimana lì, sotto una pioggia che pare non finire mai, tra laghetti, vialetti, ponticelli, la chiesa e lo sporting club, il Jolly Hotel e gli studi del Tg4 e di Striscia la notizia, i bidoni dove il logo del Biscione campeggia rosso e nitido come fosse stato dipinto il giorno prima. Parlo con professionisti, residenti, anche con uno degli architetti che realizzò il progetto e che mi dice “Lei quanti anni ha, ventisei? Vede, io quando ho progettato questa città di diecimila abitanti aveva appena trent’anni, così come i miei colleghi, così come Silvio, e abbiamo rischiato molto”.

Non c’era cena, chiacchierata, incontro in cui qualcuno non lo nominasse. Se ne parlava ai matrimoni e in spiaggia sotto l’ombrellone, ai funerali oppure alle riunioni di lavoro. A casa se il televisore era acceso, lui c’era. Appariva, sorrideva, si imbufaliva, stringeva le mani, faceva l’occhiolino, serrava le mandibole. Se il televisore era spento prima o poi arrivava il momento in cui qualcuno lo avrebbe evocato, anche solo per una battuta stupida. Avremmo annuito tutti, rafforzato il concetto, oppure qualcuno avrebbe obiettato qualcosa e allora sarebbe scoppiato un insanabile litigio. Poi, in un giorno all’inizio del 2005, sono nell’ascensore foderato di specchi di palazzo Grazioli e lo incontro di nuovo. Visto da vicino, senza i fish-eye della televisione e il rumore gonfio degli applausi, Berlusconi è un signore attempato, pieno di fissazioni, come uno che si ostina a parlare ad alta voce in un autobus affollato o che vede uno sconosciuto al bar e gli dice di tagliarsi la barba perché non sopporta di vedere gli uomini con la barba, un tizio che potrebbe risultare simpatico o antipatico a seconda dell’umore del momento. Lui è il presidente del consiglio in carica, abita e un po’ governa al secondo piano di questo palazzo romano, io tre piani più sopra seguo un master in un’azienda che si occupa, tra le altre cose, di comunicazione politica. Lo vediamo praticamente ogni giorno, una volta dice “vedo salire molte belle ragazze da voi, dovrei venire a trovarvi”, altre volte esce torvo dalla Mercedes blindata con i vetri oscurati e non dice nulla, altre volte ancora intravediamo pezzi della sua corte, il chitarrista e chansonnier napoletano, il cuoco che prende servizio alle dieci di mattina, le ragazze elegantissime che incespicano sui tacchi nel brecciolino del cortile, i ministri o sottosegretari con il loro ghigno d’ordinanza.

Nel 2007 mi ritrovo protagonista di un piccolo documentario il cui concept è una finta candidatura alle elezioni comunali di Gaeta, spacciata per vera fino al limite della presentazione delle liste elettorali, parodiando tutti gli stilemi e i codici della comunicazione politica, che in giusto in quei mesi sta per virare dal “nuovo miracolo italiano” al “vaffanculo day”. Giro un videomessaggio dietro una scrivania in cui esordisco dicendo “Gaeta è il paese che amo” o qualcosa di assai simile. A metà aprile del 2008, alla vigilia di altre elezioni politiche che di nuovo rivincerà, Berlusconi fa un comizio, con gli altri leader del centrodestra, sotto il Colosseo. A pochi passi da noi una giornalista francese che non so per quale ragione ha capito che non eravamo – diciamo così – degli esagitati del berlusconismo, chiede cosa ci facessimo là. “Siete passati per caso e vi siete fermati?”, “No, ci siamo venuti intenzionalmente”, “E perché lo avete fatto?”. L’amico accanto a me le risponde che Berlusconi è l’ultima cosa che lo diverte di questo paese, che è un vero e proprio spettacolo. Lei lo guardò come si guarda un pazzo, ma in fondo c’era davvero poco materiale per sviluppare un ragionamento più serio. Piano piano erano sparite le differenze, o forse non eravamo più in grado di riconoscerle. Cosa eravamo diventati? Ci eravamo per caso arresi? Con tutto quello che lui ci aveva fatto? E però per noi l’Italia prima di lui, o senza di lui, non era mai esistita. La giovinezza e l’ingresso nell’età adulta aveva coinciso con lui. L’anno successivo con un paio di amici ci imbuchiamo al congresso fondativo del Pdl, Popolo della libertà. Nella nuova fiera di Roma, lontanissima del centro, avevano allestito anche un podio finto per discorsi per i delegati non chiamati al podio vero ma comunque bisognosi di foto ricordo da utilizzare magari in campagna elettorale. Siamo lì quando a mezzogiorno la giovane ministra Giorgia Meloni invita la platea dei delegati a votare “l’unica candidatura pervenuta, quella di Silvio Berlusconi”. Entra lui e nomina tutti i presenti all’istante “missionari delle libertà”. Prima di andare via mi metto in fila per farmi scattare una foto-ricordo sul podio. Lo fanno tutti. Appena arrivo però qualcuno dell’organizzazione stacca il simbolo davanti al leggio. Non me ne accorgo, e mi faccio la foto davanti a un cerchio vuoto con una trave di legno in mezzo.

Non c’è più goliardia, non c’è più indifferenza nella sera livida del 12 novembre 2011. La berlina blu di Silvio Berlusconi avanza lentissima verso il Colle dove va a consegnare le sue dimissioni, la folla grida, piazza Venezia è blindata dalle camionette della polizia, gli indignati e le commesse si confondono in via del Corso chiedendosi cosa succede, gli accessi a palazzo Chigi sono bloccati, piazza del Quirinale è invasa da una moltitudine che urla, esulta, sventola bandiere italiane. Quante volte un popolo o una persona possono innamorarsi, illudersi, provarci, fare finta di crederci? Arriveranno altre elezioni, altre cadute, altre resurrezioni, altri incontri casuali. Nel 2013 sotto palazzo Grazioli mi imbatto in una manifestazione dei suoi supporter contro la sentenza che lo ha condannato e la conseguente decadenza da senatore. Non fotografo lui, non ricordo nemmeno se c’era o non c’era, ma le persone di mezza età avvolte nella bandiera, che cantano, piangono, lo invocano, sventolano una paletta di gomma con sopra scritto, tutto stampatello, “è un colpo di Stato”. Me ne rubo una alla fine della manifestazione, la riciclerò in un gruppo d’ascolto per il festival di Sanremo a casa di amici. Poche centinaia di metri più in là, ci sono invece quelli che stappano l’ennesima bottiglia di spumante del supermercato per brindare all’ennesima fine del berlusconismo, anche loro sempre uguali, nella loro allegra indignazione che nasconde un indicibile terrore: chi saremo senza di lui? Quale obiettivo, quale identità ci resterà, senza il nemico di sempre, il nemico perfetto? Alle cene, ormai, prima di incontrarsi, già al telefono si promette: giuro che non lo nomino! Ci si distraeva semmai con qualche confidenza sentimentale: nonni che si fidanzano con le badanti giovanissime, partner mollati che fanno stalking sotto casa, ragazze che un giorno dicono di amarti per sempre e il giorno dopo ti vogliono lasciare, ma non funzionava lo stesso, ogni cosa ci ricordava lui, o sono le nostre disfunzioni che si assomigliano tutte, gli istinti che lui riusciva a liberare senza sensi di colpa e noi no.

La mattina di inizio febbraio 2019 nevica sopra Arcore e tutta la Brianza. Lavoro in televisione, che forse è quello che avevo sempre voluto fare. Giriamo la scena finale di una puntata di un programma e il copione prevede una finta televendita, con il vero televenditore Roberto Da Crema, detto Baffo. Location: la strada davanti l’ingresso di villa San Martino ad Arcore. Gli viene rivolta questa domanda: “Ma quando tra duecento anni lei andrà in paradiso farà le televendite anche lì?”. E lui risponde: “Sì, ti vendo una cosa unica, particolare: le nuvole! Insolubili! Ci fai anche la pasta!”. La sera torno in hotel, accendo la televisione, e c’è Silvio Berlusconi collegato da quella villa lì, ancora lui, sempre lui, che sorride, che promette, rintuzza, rilancia, che non si rilassa, non si ferma, non prende fiato, proprio non ce la fa. In studio il giornalista si sfrega le mani, sorride ambiguo, annuisce. Nessuno sembra chiedersi quanto tempo perso, sprecato, buttato, d’altronde in televisione non si può, in politica sarebbe un errore, nella vita spesso si evita. Spengo il televisore, spengo pure il telefono.


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