Confini

A Dismaland, finto e provocatorio parco dei divertimenti progettato dall’artista Banksy sulla costa inglese, c’è una piccola piscina con una barca radiocomandata carica di migranti. Si può ancora dire qualcosa che non era stato detto a proposito dei migranti? Abbiamo visto che il corpo di un essere umano quando è determinato a muoversi può entrare ovunque e adattarsi ad ogni situazione, anche le più strette: sotto il pianale di un camion, tra il motore e il radiatore di un’automobile, nei buchi di una qualunque rete metallica, pigiato in un gommone, nascosto tra le ruote di un veicolo, aggrappato a un treno, incastrato in un container, stivato nella pancia di un aeroplano e forse di una balena. Al telegiornale avevo sentito un siriano a Kos dire: “Certo che avevamo visto in tv i naufragi nel Mediterraneo. Ma che potevamo fare? Fuggivamo da una morte certa”. Poi ho sentito un ornitologo alla radio raccontare che anche gli uccelli quando migrano verso il nord ogni primavera “devono affrontare i pericoli di una morte probabile per scampare a una morte certa”. Oggi un ornitologo parla come un responsabile dell’organizzazione Onu sui rifugiati, e viceversa. “Immaginare di metter fine alle migrazioni umane è come voler impedire alle rondini di andarsene e tornare (stiamo facendo anche questo, peraltro)” ha scritto Adriano Sofri.

Un’altra cosa che tutti hanno imparato, o ultimamente soltanto ripassato, è la capacità di adattamento di noi umani. Ci si adatta, e si dimentica. Il tempo in cui c’erano le rondini sui balconi e rarissimi stranieri immigrati per le strade, il passaggio dal sopportare uno più forte che se la prende con noi all’avere finalmente uno più debole con cui prendersela, gli anni in cui non facendo più guerre nei nostri paesi non avevamo ancora scoperto di non poter ignorare quelle degli altri paesi, il rimpianto di quando tifavamo contro i carnefici senza dover temere che le vittime in fuga venissero a bussare a casa nostra. A volte si cerca di elaborare un pensiero sulle cose che ci succedono attorno o ci girano dentro ma senza riuscirci, forse perché mancano gli strumenti o perché quando sembra di esserci vicino succede qualcosa che scombussola le priorità più o meno faticosamente costruite. Leggo la storia di un piccolo paese del centro Italia dove potrebbero arrivare una ventina di migranti, non siamo razzisti – dicono i paesani – eppure il nostro paese si sta spopolando, a noi chi ci protegge? Ogni muro è una resa all’inevitabile, i muri vogliono far paura a chi sta fuori ma fanno capire solo la paura di chi ci sta dentro.

“Non si risolve così il problema dell’immigrazione” dicono quelli arrabbiati: diamo per scontato che ogni cosa sul nostro cammino sia un problema e mai anche un’opportunità, e soprattutto che ci sia una soluzione per tutto, una trovata rassicurante per poi tornare ad occuparci d’altro. C’è chi dice che sia bastata una foto di un bambino morto a pancia in giù su una spiaggia a far cambiare idea a tante persone, anche molto potenti, come se all’improvviso avessero aperto gli occhi. “Noi non sapevamo, noi non immaginavamo” dicono sempre gli incolpevoli abitanti del mondo dopo le grandi tragedie della storia. “Noi provammo a raccontare tutto ma nessuno ci credeva o voleva ascoltarci” rispondono gli altri. Ma le cose che sentiamo, leggiamo, vediamo le assorbiamo un po’ alla volta ogni giorno, e chissà cosa diventeremo il giorno dopo. Le immagini dei migranti alle porte dell’Europa sono sempre piene di bambini e bambine: chissà che adulti diventeranno, con quali parole e a quali figli racconteranno un giorno la loro storia.


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