Il volto mancante

Tutti ogni minuto guardiamo e siamo guardati, pensiamo senza parlare e siamo oggetto di pensieri che non ci vengono detti. Lo sguardo suscettibile con cui sempre più spesso leggiamo le cose del mondo — che siano corpi, statue, film, dichiarazioni, parole, opere e omissioni — ci dice molto della società nuova che vogliamo costruire, quasi quanto lo sguardo predatorio ci dice della società che vogliamo giustamente lasciarci alle spalle. Eppure entrambi gli sguardi conservano la stessa ferocia giudicante, la stessa indifferenza ai pensieri e alle intenzioni altrui. Aggressività e fragilità continuano a specchiarsi, e l’ostentazione dell’una è ancora la rivelazione dell’altra.

Mi tornava in mente tutto questo osservando un affresco antico, in una piccola chiesa di pietra. O meglio: ciò che ne resta. La figura è quasi integra — la mano che benedice, il libro aperto, la veste sollevata da un movimento che possiamo solo intuire — ma il volto non c’è più. Non cancellato dal tempo: rimosso, raschiato, intuito solo da una sagoma più chiara. Il punto in cui dovremmo incrociare lo sguardo di qualcun altro è diventato una superficie neutra, un silenzio verticale. E allora mi sono chiesto se, paradossalmente, quell’assenza non sia la cosa più contemporanea dell’intero affresco. Perché è proprio il volto — lo sguardo, la direzione del giudizio — ciò che oggi cerchiamo ovunque. Abbiamo bisogno di sapere da che parte guarda l’altro, cosa vede, come interpreta. Lo pretendiamo dagli sconosciuti come dai personaggi pubblici, dai partner come dalle istituzioni, dagli amici come dalle opere d’arte. Abbiamo trasformato lo sguardo in una prova, una dichiarazione di intenti, un tribunale permanente. Eppure quel volto mancante sembra dirci il contrario: che non tutto può essere interpretato, che non tutto nasce per rivolgersi a noi, che non tutto ha l’obbligo di guardare o di essere guardato. Che esistono gesti, parole, immagini che resistono alla nostra necessità di decifrarle, e che forse proprio in questa resistenza conservano la loro forza.

Forse viviamo in un tempo in cui guardare è diventato un modo di esercitare potere, e distogliere lo sguardo un modo di difendersi. Ma tra le due cose si nasconde ancora uno spazio possibile: quello dello sguardo che non giudica, non possiede, non pretende; semplicemente riconosce. Riconosce che l’altro — come quel volto perduto — ha diritto alla sua opacità, ai suoi silenzi, alle sue verità parziali. In fondo, è sempre lì che inizia il rispetto: nel trattenere lo sguardo un attimo prima che diventi accusa. Nel concedere all’altro la libertà di non essere letto fino in fondo. O, almeno, di non essere frainteso come lo siamo tutti, ogni minuto, mentre guardiamo e siamo guardati.

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