La sera Leoni

Un uomo siede a terra con lo zaino tra le braccia, guarda verso le finestre chiuse del palazzo da cui il vecchio papa non si affaccerà più, le stanze che aveva scelto di lasciare vuote per non vivere nell’isolamento, per non rischiare di essere inghiottito da una solitudine che non voleva. Eppure, anche fuori da lì ha vissuto come un eremita della compassione in una metropoli indifferente che tentava di ridurlo a un’icona gestibile, di trasformare la sua presenza costante in abitudine banale, come se non fosse quello il suo modo ostinato di essere misericordioso. Si era mostrato, acciaccato e infermo, la domenica di Pasqua. Era morto all’alba del giorno dopo, il lunedì dell’Angelo. Non una resurrezione, ma uno spostare il finale un metro più in là. “Non morire prima di morire”, ammoniva il poeta russo Evgenij Evtušenko, può essere che ti resti ancora qualche compito da svolgere, forse non ti sei ancora spiegato del tutto o non hanno capito bene. Jorge Mario Bergoglio, Francesco, arrivò dalla fine del mondo, intravide la fine di tanti nostri mondi.

Di notte, le colonne di Bernini fanno un rumore che non si sente ma si intuisce: il rumore della folla che si stringe, dell’attesa che si compatta. Roma sembra misurare la distanza tra il già accaduto e ciò che verrà. Il senso di una fine, la speranza di un seguito, l’incertezza per quel che verrà. Le persone arrivano da direzioni diverse ma finiscono tutte nello stesso imbuto, verso una porta che si definisce santa. Si fanno incontri che non ti aspetti, è come se il richiamo della Roma senza papa funzionasse ancora dopo secoli: si viene a vedere, a salutarlo e a salutarsi, a godere di questa tiepida notte di primavera, a scommettere cinicamente sul futuro, a rimpiangere un passato fino a ieri indifferente. Anche chi non crede e non lo farà, con il passare dei giorni e delle parole, si è girato verso di lui. Le transenne cedono quanto basta per un passo in più, mai per due. Le statue in alto guardano tutto dall’unico punto dove il tempo non cambia. E uscendo, ecco una maglia numero 10 della nazionale argentina, quella di Leo Messi, la pulce. Don’t cry for me.

«Da dove venite?»
«Da Betlemme.»
È la risposta che un giovane ragazzo, schiacciato contro la transenna di Santa Maria Maggiore, dà a un altro che gli chiede da quante ore fosse lì. Allora quel bandierone della Palestina, che cercava di farsi spazio tra la folla variegata davanti la basilica di Santa Maria Maggiore, non rappresentava un’attenzione reclamata per conto terzi, era semplicemente un pezzo di una casa che cade a pezzi portato fin qui. Come se volesse essere vista non tanto dalle telecamere, ma proprio da Francesco nella sua bara spoglia, che è uscita un’ora fa dalla basilica di San Pietro, ancora presidiata dal mondo nero dei potenti e da quello rosso dei cardinali, è stata caricata sull’autoveicolo bianco e se n’è andata per le strade fra due ali di folla. Nel frattempo, sui cellulari si materializza un’altra foto: Trump e Zelensky, l’americano e l’ucraino, seduti faccia a faccia, dentro la basilica di San Pietro. Su sedie rosse, messe a disposizione da un sacerdote che intanto, alle loro spalle, ne riponeva una terza, quella del convitato mancante. Quanto tempo perduto a credersi più giusti, più forti, più grandi.

Nel pomeriggio in cui Roma aspetta un nome, la folla in via della Conciliazione avanza come un’unica creatura lenta. I pellegrini, radunati per prossimità geografiche come i cardinali, entrano in San Pietro. Anche le auto dell’organizzazione del giubileo, stando alla scritta sulla fiancata, sono “mosse dalla speranza”. C’è chi guarda in alto, chi controlla il telefono, chi prega, chi spintona. E poi c’è quest’uomo con il cappellino rosso di Donald Trump, abbassato sugli occhi come un parafulmine. Non disturba, non provoca. La folla lo ingloba, gli passa intorno, lo sfiora. Non è mica l’unico che cerca un punto dove mettere le mani mentre un’entità troppo lontana, che sia una stanza chiusa a chiave o soltanto il cielo, decide.

E poi, un americano a Roma è arrivato. E tu, ragazza che nelle prime file di piazza San Pietro, mentre ammiri il comignolo che continua a fumare di bianco controsole, mostri a tutti il poster del film inglese “Conclave”, e invece avresti dovuto rivederti Sorrentino. The new pope è un uomo commosso, dalla pelle senza rughe, che scandisce “la pace sia con voi!”. Robert Francis Prevost, che ora il mondo chiamerà, Leone XIV, si è collocato nella linea di confine fra memorie e aspettative. Ha nominato Francesco, ma ha indossato i segni antichi che il predecessore rifiutò: mozzetta, croce d’oro, fascia. Prova a stare nel punto dove convergono i desideri opposti, i fedeli e i cardinali, gli imperi e il mondo. Un americano, con bandiera a stelle e strisce e cappello da cowboy, non si accorgo che quel Prevost è americano, lo avvisa una suorina orientale e lui comincia a sventolare.

Il fumo bianco è ormai svanito tra le nuvole, il romanzo del Conclave si è concluso in fretta, negli interstizi della piazza che si svuota appaiono figure che sembrano uscite da un sogno laterale. Come la ragazza vestita di bianco e con i capelli grigi azzurrini, ferma su una transenna tra ruspe e gru, sotto il colonnato, con le mani giunte di una preghiera che pare new age e forse sta soltanto cercando di tenersi in equilibrio, al confine di lama tra speranza e illusione. Vuole solo essere lasciata in pace, come la famiglia di gabbiani sul tetto della Sistina, infastiditi da tutto quel clamore mondiale non richiesto. Qualunque sia il suo gesto, si incastra perfettamente nel meccanismo invisibile che muove la piazza nelle giornate in cui il tempo cambia nome. Dall’altra parte, come per l’uomo che poco fa stava sul balcone, non c’è Roma, c’è l’incognita del mondo che verrà.

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