Piazza Fontana

Piazza Fontana è un anello. L’anello, oggi, è uno spartitraffico pieno di clacson, di sole e di benzene. Ci sono taxi parcheggiati, transenne, tram in coda uno dietro l’altro, comitive in gita verso il Duomo, aria che stride. Fa effetto pensare che proprio qui, in piazza Fontana, nel centro di Milano, la storia d’Italia è arrivata con il suo traffico di nuvole e in un solo istante, alle 16 e 37 di venerdì 12 dicembre 1969, si è infilata dietro alle nove vetrine della Banca Nazionale dell’Agricoltura, è esplosa con un boato tremendo, si è riempita di sangue, ha fatto piovere sangue e ha cambiato – per sempre – direzione. Qui l’Italia si è piegata davanti ai 17 morti e agli 84 feriti. Spaventata di fronte a ogni ulteriore possibile cambiamento. Lasciandosi imprigionare da un tempo che, alla fine, l’ha fatta peggiore. Un tempo carico di stragi successive, strategie della tensione, verità nascoste del doppio Stato, disordini per consolidare ordini, piombo e furori che ancora rotolano. Al primo sguardo, oggi, sembra tutto scomparso, tutto dissolto dai nuovi intrecci urbanistici, dal biancore del cielo milanese, dal tempo volato inevitabilmente via.

Le vetrine della vecchia banca sono tutte ridisegnate, con il logo moderno e colorato di Antonveneta. Però, dal grigio della facciata e dei ricordi, si staglia ancora l’insegna quasi bianca di allora – Banca Nazionale dell’Agricoltura – lasciata stranamente lì, dimenticata a mezza altezza. Tre metri più in basso, sul muro, la lapide coi nomi delle vittime. Dall’altro lato della piazza, in un stranita spianata di erba e polvere, circondata da vecchi palazzi in ristutturazione e qualche insegna pubblicitaria, due lapidi per la stessa memoria. Due marmi dedicati entrambi a Giuseppe Pinelli, l’anarchico, il ferroviere, “ucciso innocente negli uffici della Questura” secondo la vecchia lapide degli anarchici, “innocente morto tragicamente” secondo quella fatta mettere dal Comune. Seduto al centro della piazza, il passato non torna con un colpo d’occhio.

La piazza, nonostante il movimento del traffico e di taluni manifestanti occasionali, è immersa in uno strano silenzio, in un tempo congelato, in un ronzio anomalo. Tempo ghiacciato, tempo che da allora come fosse un cadavere sul marmo dell’obitorio aspetta di essere riportato in vita, o di essere almeno sottoposto a un’autopsia, per essere finalmente seppellito, almeno con qualche lacrima ufficiale. Almeno con una parvenza di giustizia nei confronti delle vittime, con l’individuazione di un qualsivoglia colpevole mai davvero cercato, sicuramente perso nella sequenza infinita di perizie, controperizie, rivelazioni, bugie, ritrattazioni, corti di cassazione, dove tutti i fili si intrecciano e poi si smarriscono. La storia ha assimilato ormai la spiegazione della “strategia del terrore”, fosse essa di destra, dei servizi deviati, degli amerikani, della P2, o di chicchessia. “Per la prima volta – ha scritto Giorgio Bocca – gli italiani avevano l’impressione di essere stati ingannati, traditi dal loro Stato”. L’impressione tende a diventare incubo color piombo. Le indagini sulla strage di piazza Fontana sono durate 36 anni. Dopo svariati processi non è mai stata emessa una condanna definitiva. Tutti gli accusati, via via, sono stati assolti. Nel corso dei dibattimenti, al contrario, alcuni esponenti dei servizi segreti sono stati condannati per depistaggio. Oggi, 40 anni dopo, rimangono i parenti dei 17 morti. L’ul­tima sentenza della Cassazione, quella che nel 2005 prosciolse definitivamente tutti gli altri, per gli automatismi della legge in­flisse alle vittime anche il pagamento delle proprie spese processuali. Ci mise una pez­za il governo, facendosene carico con un atto di “generosità” perché dello Stato si salvasse almeno la faccia. Oggi piazza Fontana è un anello che ci fa da spartitraffico, per chi cerca ancora le traiettorie tra una piazza milanese come tante e i sotterranei della nostra Repubblica.


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