Sognavo un’estate piccola così, in un’Italia affollata come una casa dove c’è una festa con gli amici che aspettavi di rivedere, con i Musei Vaticani in cucina, Ortigia in salone, piazza San Marco nel lavandino e un giardino troppo stretto per ospitare tutti. Un’estate romantica e un po’ mitomane come certi lidi romagnoli. Già che c’ero sono tornato all’Italia in miniatura, vicino Rimini, dov’ero stato da piccolo in un viaggio premio pagato da una trasmissione televisiva, a farmi la foto sdraiato davanti la riproduzione in scala di piazza San Pietro come Raffaella Carrà nella sigla di Ma che sera del 1978, com’è bello far l’amore da Trieste in giù – sbam! – e mia madre si chiedeva come potesse non rompersi mai l’osso del collo. Sul cancello dell’uscita di emergenza, che dà su un campo di erbacce, sta disegnata la Città ideale.
La finta Venezia è più vuota di quella vera, vista appena qualche settimana fa, mentre mi aggiravo tra le calle e i canali silenziosi con i negozi di souvenir chiusi e sbarrati come se stesse per arrivare l’acqua alta dal deserto. E nella vera Venezia ero andato, come tutti, per vederla come un sogno senza nessuna folla di turisti a contendermelo, ma Venezia vuota m’era sembrata struggente e finta come quella dell’Italia in miniatura, mi affacciavo dietro ai palazzi per vedere se ci fosse un’impalcatura e qualche sacco di sabbia a sorreggerli. Tutta l’Italia sembra in miniatura questa estate che si illude d’essersi lasciata alle spalle i virus, i bollettini, le casse integrazioni, le edizioni straordinarie dei telegiornali, le mascherine, con la stessa allegria e la voglia di andare a mangiare fuori che viene appena usciti da un funerale.
Sono piene le spiagge, a Riccione, nelle Marche viste dal treno, nella Puglia e nelle isole viste su da Instagram, in Cilento con gli incendi in lontananza, a Gaeta dove il sindaco già pensa alle luminarie di Natale. Il tempo si era accumulato mentre stavamo fermi e ora bisogna smaltire il presente. O forse bisogna smaltire delle ricchezze celate sotto il tappeto, mentre a marzo si disdivano le Maldive, ad aprile si preannunciava la Caritas e a luglio si ripiegava sulla Sicilia. In un monastero tra i monti Sibillini, svicolando dagli assembramenti, un mio amico monaco mi dice che a loro la solitudine non manca affatto semmai gli è mancata di più l’ospitalità mentre tutti – per decreto del governo – si sentivano monaci oppure eroi. La vorremmo anche adesso la medaglietta da eroe, dopo i due mesi passati sul divano per questa estate passata in Italia, a far finta di nulla. Pensavamo il contrario e invece abbiamo capito che le cose non accadono quando accadono, accadono quando le accettiamo, quando siamo pronti a viverle con tutte le loro conseguenze. Ieri avevamo deciso di avere paura, oggi abbiamo deciso di far finta che tutto sia passato. Il virus questa estate è un ronzio di zanzara nell’orecchio, da scacciare con una manata. La giovinezza, pure quella più attempata, come l’estate, si fugge tuttavia.