Vietnam e motorini

Motorini, motorini, motorini. Con una, due, tre persone a bordo, quattro, le famiglie intere con i figli piccoli, il casco in testa oppure no, il guidatore che telefona, un altro che mangia, con le merci accatastate sul portapacchi, i clacson a pie’ sospinto, quell’attitudine vietnamita forse eterna alla giungla in cui sorprendere lo straniero arrogante, sebbene giungla oggi fatta di lamiere, plastica, luminarie, palazzi di vetro e cemento che si vendicano del coloniale francese, e merci, tante merci, vendute e desiderate, come le nostre ma a modo loro, circondate da un’eccitazione a noi ormai preclusa, figli di società sazie e vecchie quali siamo, ormai dimentichi che, una volta viste o assaggiate o indossate, le merci entrano sotto pelle e diventano desiderio, e il desiderio si fa presto bisogno, e il bisogno si traduce in denaro, e soprattutto in denaro e cose da mettere nelle mani dei figli e dei nipoti, e non c’è pedagogia virtuosa o retorica politica capace di spegnere questa fame, né emergenza climatica che possa convincere chi non ha a rinunciare a ciò che può finalmente ottenere, e così altro cemento, altro asfalto, altri motorini, altra plastica, dentro città che mangiano pezzi di campagna, mentre su alberi e lampioni sventolano serafiche bandiere rosse con falci e martello che forse adeguandosi ne sanno più di noi, e davanti al mausoleo di Ho Chi Minh, dove solo i turisti e le scolaresche vanno in visita, e uno sparuto gruppo di giovani pionieri in divisa azzurra e fazzoletto rosso che il loro comandante cerca inutilmente di far marciare come si deve, cartelli ammoniscono sulla proibizione assoluta di masticare la gomma e invece nella casupola di un rivenditore di gelati e Coca Cola campeggia il ritratto presidenziale di Donald Trump che pare sul punto di esplodere come una Big Babol.

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